Natale in Casa Cupiello: Tony Laudadio racconta il rapporto di “carne viva” con Eduardo e l’insegnamento dei bambini

by Mariangela Pollonio

Il fantasma di Eduardo De Filippo ha ricordato alla Rai la sua funzione di servizio pubblico. In prossimità delle festività natalizie la rete ammiraglia ha scelto la cultura come dono per i suoi telespettatori. Per omaggiare il genio di De Filippo nel 120° anniversario della sua nascita, ha messo in onda in prima serata la trasposizione filmica di “Natale in casa Cupiello”, intramontabile opera teatrale del celebre drammaturgo, firmata per la tv dal regista Edoardo De Angelis.

Il film, prodotto da Picomedia in collaborazione con Rai Fiction, racconta le vicende dal sapore agrodolce tratte dal capolavoro del poeta partenopeo attraverso le straordinarie interpretazioni di Sergio Castellitto, Marina Confalone, trait d’union con la versione teatrale originale in cui l’attrice era parte del cast, e ancora Adriano Pantaleo, Tony Laudadio, Pina Turco, Alessio Lapice e Antonio Milo.

Per De Angelis era importante fare tabula rasa del ricordo monumentale di Eduardo interprete. “Ciò che ancora vive – ha affermato il regista – sono i testi che il drammaturgo ci ha lasciato. Oggi Eduardo può vivere in corpi nuovi grazie alla potenza cristallina dei suoi scritti”. Il paragone con l’opera originale è fuorviante. Per De Angelis “si deve sgombrare il campo da un possibile equivoco di natura estetica: non esisteva un film tratto dal noto testo che invece segue una drammaturgia teatrale. La trasformazione da copione teatrale a cinematografico – fatta dal regista insieme allo sceneggiatore Massimo Gaudioso – fa diventare questo oggetto filmico altro da se”.

L’ambientazione è diversa, richiama il dopoguerra e la neve del ’56 a Napoli, mentre l’originale era calato negli anni Trenta. De Angelis voleva che questo Natale avesse le caratteristiche di un emblema e che fosse quindi speciale, con una Napoli innevata come il presepe. Anche l’anno di collocazione ci teneva che fosse emblematico: “gli anni Cinquanta  – racconta – vedono Napoli leccarsi ancora le ferite della guerra, però si intravede la nascita di un ceto medio con un benessere alla portata di un maggior numero di persone.” Anni sospesi tra distruzione e ricostruzione, che per il regista assomigliano molto al 2020. La regia apre il film con Benino, il pastore dormiente che introduce lo spettatore nel mondo onirico del presepe, e trasferisce quell’atmosfera magica che accompagnerà il film fino all’ultima scena.

Tra i personaggi principali del film spicca zio Pasqualino, magistralmente interpretato da Tony Laudadio. L’attore definisce il Natale che stiamo vivendo “prudente”.

Stiamo vivendo una atmosfera natalizia abbastanza insolita. Quale messaggio pensi si volesse dare attraverso questa operazione culturale?

Quando è stata pensata non era chiara la gravità della situazione, perché parliamo degli inizi del 2020. Si stava progettando questa idea, ma era difficile immaginare cosa sarebbe accaduto di li a poco. Credo sia stata una felice coincidenza, perché la Rai e tutti noi siamo stati coinvolti nel tentativo di unificare attorno alla massima festa per eccellenza dell’anno un evento televisivo, che poi è anche un evento identitario, che mette insieme un testo conosciuto e amato da tutti, degli attori noti, con un linguaggio anche popolare. L’obiettivo credo sia stato quello di farci tornare mani nelle mani come in un grande girotondo attorno a tale evento. Tutto era imprevisto. Infatti l’aspetto emotivo che viene fuori adesso è molto più forte. Senza la pandemia non ci sarebbe stato. L’operazione in sé poteva essere una semplice trasposizione cinematografica di un bel testo di De Filippo, che fatta nel periodo di Natale avrebbe avuto il suo ritorno, anche emotivo, però con l’attuale condizione mondiale a maggior ragione prende significato. Casa Cupiello di fatto è una famiglia che si disgrega, un luogo in cui avvengono continui litigi, asprezze, divisioni, però poi i suoi componenti si ritrovano uniti. Questo sul piano umano rende Natale in Casa Cupiello più emozionante per chi lo guarda. Sul piano culturale invece il discorso è più ampio. Riguarda l’intento di rinnovare il linguaggio teatrale che viene spostato in un’altra arte ovvero quella cinematografica, e scommettere però sulla fruizione televisiva.

Secondo lei la famiglia di oggi riuscirà ad immedesimarsi in quella dei Cupiello?

Penso di si, perché per quanto peculiare sia, è una famiglia in cui le dinamiche sono abbastanza universali. Sono dinamiche di inferno borghese, di un interno a volte claustrofobico, ognuno con proprie fobie, difetti e caratteristiche. E questo rispecchia i soliti rapporti, specialmente nella famiglia italiana. Non credo che la napoletanità del testo la renda valida soltanto a livello locale o al sud. In questo il genio di De Filippo è esploso perché ha colto dinamiche familiari universali.

Lei interpreta lo zio Pasquale. Credo ce ne sia uno in ogni famiglia. Che personaggio è stato per lei e ha ritrovato delle caratteristiche comuni.

La particolarità di questo Pasqualino che lo differenzia dalle famiglie moderne è che vive ancora nella casa della famiglia del fratello. Porta un piccolo contributo economico, ma approfitta senza alcuno scrupolo della situazione di accudimento di cui viene graziato. E non è disposto a rinunciare a nessuno dei suoi privilegi. Caratterialmente non mi assomiglia, ma è stato anche il bello di interpretarlo. Mi piace scoprire personaggi che mi sono lontani e dargli una caratterizzazione. Forse è un po’ permaloso come me, ma per il resto siamo molto diversi. Oggi in ogni famiglia si può ritrovare quello che non ha seguito il flusso normale degli altri, che è ancora single e a volte viene visto come la pecora nera, perché conduce una vita misteriosa. Anche Pasqualino è così. Non viene espresso sino in fondo. Lui stesso ha i suoi segreti, la sua stanza dove non vuole far entrare mai nessuno.

Lei ha già interpretato diverse opere di De Filippo a teatro. Natale in casa Cupiello credo sia l’opera più importante nell’immaginario collettiva. Cosa ha dato questa interpretazione a Laudadio uomo ed attore?

Ho messo in scena tanti testi di Eduardo, ho girato l’Italia con molti allestimenti teatrali compreso “Sabato, domenica e lunedì” con Toni Servillo. L’esperienza Eduardiana è quindi carne viva per me. Mi ci confronto spesso. Tra l’altro quest’inverno dovrò girare altri due suoi testi. “Natale in casa Cupiello” è il più popolare, il più comico. La differenza che percepisco da questa versione di Edoardo De Angelis al cinema è che il testo non è stato trattato come una semplice commedia per far ridere a Natale e assecondare certi buoni sentimenti. Sono narrate persone che hanno dei caratteri precisi, che il cinema può indagare psicologicamente sino in fondo, senza cedere alla farsa che invece è presente nel testo. In questo senso è una esperienza diversa dal solito. La differenza è anche nel linguaggio: ho fatto spesso Eduardo a teatro, mentre è la prima volta che lo affronto in maniera cinematografica. L’assenza del pubblico e la vicinanza della macchina da presa cambia molto il rapporto che hai col personaggio, con l’introspezione e la sua analisi, non ci sono le risate e l’energia degli spettatori, non c’è il tempo comico. È un altro lavoro. Da una parte è più tecnico, dall’altra più psicologico, perché puoi cambiare ciò che non ti piace e puoi farlo con il regista nell’attimo stesso in cui reciti. Il confronto è immediato. Si crea un rapporto di fiducia, che in questo caso mi è venuto facile, perché con De Angelis ho lavorato per quasi tutti i suoi film.

Al di la del ruolo dello zio, quale personaggio di Natale in Casa Cupiello la affascina di più e perché?

La più ovvia risposta sarebbe il personaggio di Lucariello, che è un archetipo altissimo. Castellitto in qualche intervista ha detto che “Luca Cupiello sta insieme agli Amleto, agli Otello, sta a questo tipo di personaggi.” Sarebbe quindi una risposta scontata. Invece da spettatore vado sempre a cercarmi certe finezze, certi passaggi più misteriosi del testo. Devo dire che la relazione che si crea tra Pasqualino e suo nipote Tommasino è quella che mi affascina di più, perché è una dinamica di crudeltà e allo stesso tempo di affetto, come la maggior parte dei rapporti familiari.

Spostando l’attenzione dal film di De Angelis, la pandemia ha stravolto il mondo culturale e dello spettacolo in generale. Come pensa ne usciranno gli operatori e come lei sta cercando di attraversare questo periodo che si sta prolungando più del previsto?

In una battuta potrei dire che gli operatori ne usciranno affamati. Questo lungo momento di stasi è stato duro per tutti, c’è una crisi profonda, perché noi del settore non abbiamo altre voci di introiti, e con i pochi contributi avuti dallo Stato so di molti amici e colleghi che ne usciranno con difficoltà. Io sono stato per fortuna coinvolto in molti progetti soprattutto cinematografici, unica attività attoriale che si è potuta continuare a fare, e questo in qualche modo mi ha consentito di stare tranquillo, ma avessi dovuto basarmi solo sul teatro sarebbe stato preoccupante. Credo che l’insegnamento sia di due tipi, uno culturale cioè l’assenza di eventi dal vivo, di condivisione come il teatro, i concerti, i musei, ci toglie una parte di noi che è identitaria. Secondo me il teatro forma le comunità, quindi senza di questo sento che c’è uno strappo tra i cittadini, si crea una distanza; l’altro insegnamento verte, invece, sul piano tecnico, perché dobbiamo imparare che devono esserci delle precauzioni, visto che questi periodi di crisi possono ripresentarsi e dobbiamo essere tutelati con dei fondi messi da parte per simili imprevisti oppure deve esserci una rapidità di intervento tale da alleviare il problema a chi perde il lavoro. Andrebbe fatto un discorso di previsione allargato ad ogni settore.

Tony Laudadio PH Alessio Della Ragione

Condivide l’amarezza di alcuni colleghi nel commentare le scelte del governo per aver eguagliato il tempo libero alla cultura, affermando che le attività culturali rientrano in quelle non necessarie?

Ho sentito dichiarazioni assurde come “questi artisti che ci fanno divertire..”, se stiamo ancora a questo tipo di considerazioni abbiamo fatto un passo indietro. È chiaro che non ci può essere soltanto una identificazione del lavoro del teatro o altre forme di intrattenimento dal vivo come puro divertimento, quello è cabaret, dignitoso ma non è l’unica forma. Il teatro ha invece in se un potenziale culturale: come salvaguardiamo e ristrutturiamo opere tangibili come i quadri, le sculture o creazioni di architettura, va salvato il patrimonio immateriale. Chi ci governa in emergenza non ha pensato al nostro settore. Li comprendo, perché hanno dovuto affrontare problemi gravi senza avere tempo per rifletterci bene. Però adesso che ci siamo passati bisogna averne tratto un insegnamento.

Quando e come è stato girato Natale in casa Cupiello, visto che eravate in pieno Covid?

È stata dura. Abbiamo girato cinque settimane tra agosto e settembre, con cappotti, sciarpe, maglioni di lana. Il set era a Napoli in un appartamento nel centro storico in via dei Tribunali. Mascherina per tutti, tamponi ogni settimana. Speriamo che questa emergenza non blocchi anche il resto dei progetti che sono in cantiere. Tra gennaio e marzo dovrei lavorare con Carlo Cecchi in tournee con due atti unici ancora di De Filippo, “Dolore sotto chiave” e “Sik-sik”, sempre che si riaprano i teatri. In seguito è stata già annunciata dalla Rai una nuova produzione per il cinema tratta da un testo di Eduardo ovvero “Non ti pago”, che dovrebbe essere affidato allo stesso cast e che vedrà sempre Castellitto tra i protagonisti. Dovremmo girarlo già nella prossima primavera. Poi è prevista la partenza per Barcellona tra maggio e luglio dove con un regista catalano dovrei mettere in scena “Filumena Marturano” in lingua spagnola. Insomma Eduardo non mi abbandona.

Se c’è stato un cambiamento, in cosa Laudadio è cambiato durante il lockdown, che ha visto un po’ tutti riflettere di più sulle proprie vite?

Attraverso tuttora un periodo di transizione nella mia vita. E forse uno degli insegnamenti più interessanti su cui ho riflettuto in questo tempo è proprio che dovremmo sempre esser pronti a vivere la vita come una transizione, senza darci punti di riferimento stabili e assoluti su cui basare la routine quotidiana, ma anche quella a lunga scadenza. Ogni tanto uno scontro con qualcosa che ci modifica o ci paralizza, anche doloroso come è stato in questo caso con il covid, probabilmente è uno stimolo per rendersi conto che c’è una evoluzione dentro di noi, che non siamo organismi statici, ma in continua trasformazione. In parte perché già stavo vivendo questa condizione prima della pandemia, un po’ perché siamo stati costretti a fare questo tipo di ragionamenti. Avevamo tutti delle certezze, con i nostri progetti e i programmi già su carta, e tutto è andato via. Questo è un insegnamento. Poi sul piano più intimo la riflessione semplice e banale di riscoprire le piccole cose, il piacere di conquiste meno eclatanti, il gusto di poter passeggiare, di vedere gli amici. Anche se c’è stato un momento del lockdown in cui mi è piaciuto restarmene a casa. Altra cosa che mi è sembrata invece più forte è stato sentirmi comunità. Mi è parso che in Italia si sia percepito. Trovarsi in una condizione di trauma condiviso all’improvviso ci ha unito. Un evento anche identitario, qualcosa che somiglia ad una guerra, o per noi del Sud ad un terremoto.

Lei ha due figli piccoli. Come ha spiegato questo periodo storico, visto che ha messo in bilico tante certezze.

Sul piano pratico i bambini sono stati migliori di noi. Hanno colto un aspetto che per loro è quotidiano cioè che certe cose si fanno a prescindere, non si devono per forza capire. Ci sono ordini perentori a cui sono abituati, quindi quando ad un certo punto abbiamo detto che dovevamo stare chiusi in casa lo hanno accettato con meno riserve rispetto agli adulti. È chiaro non avevano la scuola, gli mancavano gli amici, però è una condizione in cui gli abbiamo messi e che hanno accettato, perché sono migliori di noi. Questo dovremmo impararlo. E poi alla loro età il cambiamento è costante. Sul futuro è difficile dire loro qualcosa. Cerchi di fare la media tra il pessimismo della ragione e l’ottimismo del cuore. Vorrei che acquisissero la cultura che mi rappresenta, quella della condivisione. Sapere di far parte di una comunità e non di essere solo degli individui che agiscono passando sopra i diritti degli altri. Percepirsi così quindi, all’interno però di una loro pulsione e di una loro ambizione che deve servire da molla per rendersi unici. Questa è la ricchezza che coltivo tutti i giorni e spero che abbiano anche i miei figli. C’è una famosa frase che ho imparato quando sono nati: “Loro non saranno mai come tu dici, ma come tu sei”. Quindi dobbiamo sforzarci di essere migliori. Perché c’è una eredità che va oltre ciò che desideriamo. Tutto sommato è rassicurante, perché se sei stato una brava persona lo saranno anche loro.

Natale in casa Cupiello

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