Nel Barrio, sul finire di Milano, un supereroe nero italiano: Zero, la nuova serie originale Netflix italiana

by Niccolo Bellon

Il quartiere è un’isola, un mucchio di polvere e cemento armato, coagulo di condomini, vecchie e disgraziati, gli amici di quando si era bambini, i cortili, le bollette, i sussidi. Il quartiere è moto da luogo, punto di partenza e mai d’arrivo, il padre da uccidere, il cordone ombelicale da recidere. Il quartiere è un porto, una promessa e ogni ferita, per ogni sbaglio una rinuncia.

Zero è Omar – l’esordiente Giuseppe Dave Seke, altissimo, asciuttissimo, il sorriso impacciato – un nero italiano, quello che porta le pizze la notte, che disegna fumetti nascosto nel disordine della sua cameretta di bambino cresciuto in fretta, laggiù nel Barrio, sul finire di Milano, la periferia vicina e sconosciuta, là dove i motorini prendono fuoco e alle statue saltano le teste, dove è nato e cresciuto e da dove, ora, vuole scappare, che sia per il Belgio o il Brasile.

Zero

Zero ha un segreto, un difetto di fabbricazione: l’invisibilità. Chiude gli occhi e non c’è più, e non perché il colore della sua pelle sia più scuro, o la sua lingua confusa tra quella del padre e quella del paese che abita (“La lingua non conta, conta quello che comunica” dirà pensando all’uomo che l’ha messo al mondo, al suo essere distante e impossibile – un giorno lo perdonerà, quando si farà la barba e gli somiglierà), e nemmeno perché non ha luogo e continuamente vaga, veloce in bicicletta, lungo tutte le strade della città, dalla punta Nord di Corso Como ai limiti del Naviglio. Zero diventa invisibile al mondo, agli amici, alla ragazza che ama e profuma di vetri rotti, ha le guance rigate dal pianto e dopo una notte d’amore non lo vede più – lei è Anna, la brava e già intravista Beatrice Grannò. Zero è lì, ancora lì, ma non si vede. Perché scompare quando ha paura, quando ama o si preoccupa: sua grazia e disgrazia.

Così Zero è un supereroe.

E come insegna Spider Man, al secolo Peter Parker: se il dono c’è, va al servizio di chi chiede aiuto – parafrasi personale del più noto “da grandi poteri, grandi responsabilità” del compianto zio Ben.

Goffo e scomodo nella calzamaglia che in tempi moderni non ha mantello né spalline, non porta maschere, non nasconde marchingegni, spara ragnatele, vista laser e raggi missili, Zero indossa una canotta sgualcita della madre scomparsa, un ex giocatrice di pallacanestro, il numero 0. E non ci sono donzelle in pericolo, draghi, torri o super cattivi: nella Milano d’oggi il grido d’aiuto arriva dalle case, dalle strade, dal luogo da cui il ragazzo voleva scappare e che ora deve salvare. Già, il Barrio.

Tra le citazioni sparse si ricordi un ragazzo tra i tanti che a un certo punto prende un libro di James Baldwin in mano: “Se solo quelle strade potessero parlare, ti direbbero: fallo, aiuta il tuo quartiere” e si pensi alla letteratura di ieri, all’urlo di rabbia e dolore di Baldwin, e alla voce frizzante d’oggi, alle ragazze di Bernardine Evaristo, alla Queenie di Candice Carty-Williams, a Raven Leilani e il suo bel Chiaroscuro.

In questa serie c’è dentro un po’ della mia storia, che è anche la storia di tutte le persone che si sono sentire sconfitte ancora prima di scender in campo. Zero è la storia di chi impara ad accettare le proprie diversità” racconta Antonio Dikele di Stefano, ideatore e sceneggiatore del nuovo prodotto originale Netflix italiano, disponibile in streaming dal 21 aprile in tutti i paesi in cui il servizio è attivo.

Ma è la storia più vecchia del mondo, del bambino che si fra grande e sconfigge le sue paure e incontra l’amore, la fatica, i doveri dell’uomo; favola già nota e ormai noiosa. Eppure Zero si fa guardare, sarà per il montaggio serrato, per la palette vivace che anima ogni scena, per quella Milano, vista sempre di sguincio ma protagonista più che mai; sarà per la colonna sonora che esplora le playlist dei ragazzi che questa storia la fanno e di quelli che questa storia la guardano: Mamhood, Marracash, tra Supreme e tantissimo altro rap, perché quello oggi si ascolta; sarà che Zero è uno dei tanti, uno fra gli altri, che con quel dire un po’ impastato ci ricorda che: “Il mondo ti guarda se tu lo guardi, si occupa di te se ti occupi di lui”.

Ecco, sarà per il suo sguardo attento su quel mondo e i giovani che lo abitano, neri, bianchi, gialli, arancioni, celesti, ogni ragazzo che lotta per un’idea, per una ragione, e crede in un sogno universale che è quello di farcela.

Zero è la nostra storia” sostiene l’ideatore, sceneggiatore, scrittore.

O forse no. Zero si guarda perché non c’entra niente con niente.

Per la prima volta, in un’Italia priva di una cultura di attori neri, scendono in campo forze elettriche, irriconoscibili, per questo degne d’attenzione: il già citato Giuseppe Dave Seke e Daniela Scattolin, Madior Fall, Haroun Fall, Virginia Diop e Richard Dylan Magon, i giovani protagonisti della serie, tutti neri italiani.

Sempre Dikele di Stefano: “La cosa che conta di più è esistere. Mi dicevano non esistono attori neri, non esistono registi o direttori della fotografia neri. Eppure oggi ci sono, e dovranno esserci in futuro. È molto importante, potrebbe essere la prima finestra verso un mondo migliore. L’obiettivo è arrivare a una conferenza stampa in cui si parla di cioè che facciamo non di che colore siamo. Lì, avremo vinto.”

Ha ragione la forte Daniela Scattolin (nella serie, Sara): “Un progetto così in Italia non ci sarà mai più, è oggi e oggi soltanto. E può cambiarti la vita.”

Dall’altra parte della luna, Angelica Jade Bastién, recensendo la nuova serie antologica Amazon Them per Volture, ha attaccato duramente i “Black creators” hollywoodiani, ormai disinteressati ad abbattere uno status quo che ancora vede pagine di cronaca riempite dal dolore dei neri, protagonisti secondari, sempre schiavi o cameriere vessati da dolori e ingiustizie. I reietti di ieri, i dimenticati d’oggi.

Ora, pensa l’Italia. La vecchia, la retrò, la granitica Italia.

Pensa avere un supereroe nero italiano.

Pensa fosse un giovane rider capace di scomparire come il personaggio di un manga giapponese.

Pensa si chiamasse Zero e abitasse nel quartiere più lontano dal centro, in periferia.

E pensa agli occhi dei ragazzi e le ragazze che lo guardano, alla forza del messaggio che cela una storia così lontana, così vicina.

Nicolò Bellon

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.