‘Pamela: A love story’. Un racconto sincero e senza filtri della donna, lontanissima dalla diva, ossessione di pubblico e media per decenni

by Claudio Botta

Una Pamela Anderson sorprendente e lontanissima dagli stereotipi, dalle fantasie e dagli eccessi che per decenni l’hanno etichettata ed eletta a star planetaria. Il documentario ‘Pamela: a love story’ (Netflix) diretto da Ryan White e prodotto da Jessica Hargrave, Julia Nottingham e dal figlio Brandon Thomas Lee, non è soltanto la risposta immediata alla serie ‘Pam e Tommy’ (in onda in Italia su Disney +) realizzata senza il consenso e il coinvolgimento dei diretti interessati, destinata a riaprire una ferita che, dall’ormai lontano 1996, non si è mai cicatrizzata, dato che è focalizzata sui video hard della coppia rubati, diffusi e diventati virali, incontrollabili con l’avvento di internet. E’ un ritratto intimo e sincero, disarmante, di una donna fragile, in tanti aspetti simile a un’altra icona sexy leggendaria, Marilyn Monroe, che il discusso film ‘Blonde’ ha mostrato in tutta la sua disperata ricerca di amore e comprensione, di accettazione della vera sé perennemente oscurata dalla diva. L’inizio del racconto, lei in una stanza con una pila di vecchie vhs, è già il cuore della storia, in cui immagini e parole hanno la stessa importanza.

Le parole sono quelle evocate dai ricordi di una donna di 55 anni che riavvolge i nastri della sua vita partendo dalla bambina nata e cresciuta in una piccola isola del Canada, e quelle riprese dai quaderni gialli in cui venivano puntualmente annotate riflessioni e speranze (“quando scrivo il mondo si apre”). “Nessuno ha un’infanzia perfetta” è una constatazione che in cui il dramma (di un padre donnaiolo, bevitore e violento) viene stemperato dall’ironia e dall’accettazione.  Da cui probabilmente deriva, come spiegherebbe qualsiasi psicologo, l’attrazione per i “cattivi ragazzi”, che tuttavia non può e non potrà mai giustificare le violenze subite e il rapporto complesso con la sessualità e l’affettività. Le molestie della baby sitter, terminate solo con la sua morte in un incidente stradale. Il venticinquenne che ha abusato di lei quando aveva appena dodici anni, è stata quella la sua “prima volta”. Il difficoltoso viaggio negli Stati Uniti che è già una fuga. L’adolescente carina che viene inquadrata dalle telecamere sugli spalti durante una partita di football americano, “la porta d’accesso ad un nuovo mondo”: prima testimonial per uno spot pubblicitario, poi la telefonata per la copertina di Playboy del mese di ottobre 1989. L’arrivo alla mitologica Playboy Mansion di Hugh Hefner, la sensazione costante di inadeguatezza tra tante bellezze stratosferiche, la lenta, progressiva, inesorabile scoperta del proprio corpo, le trasparenze e la nudità vissute come liberazione, ben oltre l’accettazione. La nascita del mito Pamela Anderson, i capelli biondo platino e il seno rifatto diventato l’ossessione di giornalisti e conduttori televisivi di enorme successo e visibilità, e di milioni di fans in tutto il mondo. La consacrazione definitiva – e apparentemente imperitura – arrivata con ‘Baywatch’, dal 1989 al 2001 tra le serie tv più popolari del pianeta, e il personaggio di Casey Jean (CJ) Parker, il costume rosso intero e la corsa rallentata diventati iconici di un’intera epoca.

Le immagini patinate e disordinate della trasformazione in corso, dei primi flirt celebri fino all’incontro della vita con Tommy Lee, cofondatore e batterista della band hair metal Motley Crue, una spiaggia messicana location di un matrimonio in bikini (lei) e bermuda (lui), celebrato dopo appena quattro giorni da una frequentazione iniziata con una pillola di ecstasy in un party notturno. La rockstar bella, dannata e tatuata e la bomba sexy: un’unione perfetta per richiamare e giustificare un’attenzione e una voracità mediatica morbosa e non stop, due personaggi troppo ingombranti per lasciare spazio alle due persone alla ricerca di un equilibrio di coppia e di un figlio, dopo un primo aborto spontaneo. Insieme al massimo della popolarità, destinati ad essere travolti da quella stessa popolarità, quando verranno loro rubati dei video di rapporti intimi, notte di nozze compresa, e distribuiti e commercializzati in modo sempre più capillare. “E’ stata la fine della mia carriera”, la sua amara constatazione, e il prologo di tanti disastri e fallimenti, privati e pubblici, perché anche la giustizia (intesa come quella dei tribunali) uscirà parecchio ammaccata da una vicenda attualissima ancora oggi. Perché quell’accusa “sei su Playboy, non hai diritto alla privacy” rappresenta uno stigma che perseguita tante donne cui il diritto alla dignità e alla libertà di scelta viene sistematicamente negato, per cui la sessualità è ancora fonte di pregiudizi e tabù, o all’eccesso opposto giustifica un voyerismo che non accetta limiti e consensi. Una vicenda antesignana e paradigmatica di tante, troppe altre che si sarebbero poi succedute senza concreti argini di difesa, vittime sacrificali del loro status e del loro successo, della loro natura e del tombale “se lo sono cercata”, passepartout per giustificare qualsiasi abuso e reato che dovrebbe essere invece condannato, senza esitazioni e attenuanti.

L’inizio della fine della relazione con Tommy, dopo la nascita di Dylan seguita a quella di Brandon, è un altro squarcio doloroso che emerge in tutto la sua profondità, attraverso la confessione a cuore aperto di Pamela. La donna oggetto del desiderio che dal primo divorzio passerà da una relazione all’altra e da un matrimonio all’altro, era e rimane una donna smarrita alla ricerca del riferimento affettivo perso, ma ingenuamente convinta che alla fine “l’amore guarisce tutto” e pronta quindi a vivere ogni nuova storia senza risparmiarsi. Con il cantante Kid Rock, sposato a bordo di uno yacht a Saint Tropez ma poi lasciato qualche mese dopo per mancanza di una passione almeno lontanamente paragonabile a quella già provata. Il terzo ‘yes’ con il produttore Rick Salomon, lasciato una prima volta dopo due mesi dalle nozze per l’eccessiva familiarità – di lui – col crack, e poi nuovamente dopo un ulteriore, inutile tentativo a qualche anno di distanza. La relazione tormentata in Francia con il calciatore Adil Rami (che non viene nemmeno citato per nome, la delusione evidentemente è ancora tanta). I dodici giorni da marito e moglie con Jon Peters bypassati, qualche fotogramma iniziale e finale dedicata all’ultimo ex, Dan Hayurst, suo ex bodyguard che aveva sposato nella stessa location scelta dai loro genitori, che invece nonostante i problemi hanno resistito e sono ancora una coppia. L’ammissione finale ai figli: “non ho amato nessuno come vostro padre”, la consapevolezza che non torneranno mai insieme. L’interessante parentesi dedicata a Julian Assange, incontrato più volte a Londra nell’ambasciata ecuadoriana e dalla visione contrapposta su internet (un incubo per lei, uno strumento per diffondere verità inconfessabili per lui), altro spunto meritevole di attenzione e approfondimento anche nell’epoca dei video di pochi secondi su Tik Tok. L’orgoglio per il suo impegno di attivista Peta, per avere usato e mostrato il suo corpo e la sua popolarità a favore di una causa degnissima. L’insperata, nuova opportunità professionale arrivata con il ruolo di protagonista del musical ‘Chicago’ a Broadway, gli applausi e le positive recensioni che hanno accompagnato le otto settimane di repliche all’Ambassador Theatre per otto settimane.

La solitudine attuale, chissà se e quanto durerà, perché lo smarrimento traspare dal viso struccato e dalla sincerità dello sguardo, appannato ma con la luce pronta a riaccendersi e riesplodere. I luoghi dell’infanzia una rassicurante comfort zone che non potrà mai essere definitiva. E il finale aperto di un documentario sincero e senza filtri rende fin troppo prevedibile una nuova rinascita, di una donna e un’attrice e non di un personaggio a immagine e somiglianza di desideri a buon mercato (globale), non importa quanto rispondente alla realtà.

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