Pathos e cronaca senza sprofondare mai nel facile melò: Veleno, la favola nera ora docu-serie su Amazon Prime

by Niccolo Bellon

Questa è una favola nera. Di bambini uccisi, sgozzati, pugnalati. Di bambini violati tra canti bislacchi al demonio.

Questa è una storia vera. Ha inizio e non trova fine ancora oggi, ventitré anni dopo la notte del 12 novembre 1998, quando sei bambini di Massa finalese vennero allontanati dalle loro famiglie con l’accusa d’abuso rituale satanico nei confronti di minori da parte di una rete di satanisti. Satanisti che erano, nei racconti dei piccoli, i loro padri, le loro madri.

Una precisazione. Vorrei poter parlare del podcast, poi libro (edito Einaudi Stile Libero), ora docu-serie (per Amazon Prime Video), “Veleno” in terza persona, con la stringatezza dei grandi, la puntualità dei giusti, l’occhio distante eppure preciso dei capaci. Purtroppo, mi è impossibile farlo.

Avevo una compagna di corso, in Accademia di Belle Arti, dall’accentuata cadenza modenese, corretta poi, nel giro di nemmeno troppi aperitivi lungo Naviglio, in un milanese impreciso ma giustamente scivoloso; la ragazza diceva di venire da Mirandola, a me sconosciuta ma famigliare, così simile, dai suoi racconti, al mio paese d’origine: la piazza lastricata sulla quale s’affacciava il Duomo, le vie del centro, le case sparse, la dimensione intima e mondana delle piccole città di provincia: paesi distanti dal sogno delle metropoli, dove del poco che accade, se mai accadesse, si sa ancora prima che succeda.

A pronunciare quel nome, Mirandola, qualche giorno più tardi, fu la voce profonda e affascinante di un giornalista che ricordavo per un’inchiesta del programma “Le Iene”, Pablo Trincia. Ne parlava in un podcast realizzato per Repubblica insieme alla collega Alessia Rafanelli, “Veleno”, che cominciai ad ascoltare in un viaggio in treno Milano-Santhià, dimenticandomi dei mutevoli scenari che andavano scorrendo fuori dal finestrino, scordandomi dei vicini rumorosi, delle dispense di Storia della comunicazione da ripassare per la sessione imminente. Impossibile, e sempre lo sarà, non mettere a tacere il mondo ascoltando la vicenda inquietante, surreale – eppure, è successo per davvero – dei diavoli della bassa modenese.

È cronaca. C’era don Giorgio al cimitero, c’erano i diavoli, c’erano le tombe, i fuochi. Questo raccontava Cristina, una dei sei bambini strappati dalle loro famiglie quella notte lunghissima – lunga vent’anni, dirà Trincia – del 12 novembre 1998. Lei come altri, sicura d’aver ucciso, sgozzato, pugnalato altri bambini, e di essere stata violata nel cimitero del suo piccolo paese dell’Emilia-Romagna dove figurarsi se possono esser condotti riti satanici sotto l’occhio vigile e violento di mamma e papà e il parroco buono, gentile e ben visto.

È tragedia. Un passo indietro: è il 1997, tra i campi della pianura spunta una cassa mal messa, l’intonaco giallo scrostato, gli infissi logorati dal tempo e la povertà. È la casa della famiglia Galliera, già seguita dai servizi sociali della zona. Sarà il loro figlio più piccolo, Dario, affidato da tempo a un’altra famiglia, a raccontare prima alla madre affidataria, poi alla psicologa Valeria Donati, particolari scabrosi che coinvolgono tutta la famiglia originaria, poi amici, conoscenti, altre persone e altri bambini, abusati e abusatori, pedofili, satanisti. Adulti incappucciati che fanno bere il sangue di gatti squartati ai propri figli, e cadaveri gettati nel Panaro, piccoli arsi vivi in stufe mai ritrovate. Emergono accuse di pedo-pornografia, violenze sadomaso, prostituzioni.

È impossibile penso, e m’informo, leggo, rileggo, indago. Subito mando un messaggio vocale alla mia compagna di studi: “Ma tu lo sapevi?”, “Qualcosa, ma i miei non me ne hanno mai parlato bene”. Perché?, uno fra i tanti di questa storia. Per paura, per non dar adito alle chiacchiere, per allontanarsi dal fattaccio – se non ti vedo, non esisti. Perché il paese ammutolisce tutto davanti alle colpe di questi padri, di queste madri, attorno a loro non si stringe, con loro non piange, non urla, non precipita nel baratro nero, infinito, di chi perde il bene più prezioso.

Cerco le foto di chi è stato. Federico Scotta, Kaempet Lamhab, moglie e marito, genitori di una bimba di tre anni e un bambino di pochi mesi, subito affidati ai servizi sociali; con loro a protestare seduti, affamati, davanti ai servizi sociali della zona, la vicina di casa Francesca Ederoclite, mamma di Marta, otto anni, allontanata anche lei da casa. Francesca che cerca di andare in udienza dal presidente Scalfaro, e raggiunge poi la figlia al cenacolo Francescano, casa-famiglia, casa degli orrori, e per questo viene arrestata e rilasciata ai domiciliari. Francesca che il pomeriggio del 28 settembre 1997, dopo aver letto al televideo una perizia medica che avrebbe confermato gli abusi su sua figlia, si getta al vento d’autunno dal balcone del quinto piano sulla Statale 12. Morirà in ospedale, qualche ora dopo, sul tavolo di casa un foglietto: “Sono innocente.”

(E Marta lo sa, lo saprà sempre, e lo dirà – vent’anni più tardi – dopo troppe sentenze, molte assoluzioni e morti vane, dopo che intere famiglie sono state smembrate.)

Perché?, mormora il coro.

Ricordo il giorno in cui chiesi ai miei genitori: “Ma è vero?”, chiamai le amiche, i compagni, cercai informazioni dai più vecchi, dai vicini, gli inseganti, il prete, il panettiere, il macellaio. Ma il paese tace: è lutto, è vergogna, è menzogna.

Nelle parole di Trincia un altro posto conosciuto, vicino, così vicino da far spavento, talmente vicino da pensare ch’è impossibile, mai qui è potuto capitare.

Ma questa è una favola nera, questa è una storia vera.

È il 5 giugno 1996, a Sagliano Micca, piccolo paesello dimenticato tra i monti biellesi, in una Fiat Uno verde, un’intera famiglia – madre, padre, due figli – manda giù qualche pasticca di sonnifero e respira il gas di scarico fino a morire. Sono tutti accusati di aver sottoposto alle più raccapriccianti pratiche sessuali due bambini, i figli dei figli. Le perizie su cui si fondava l’impianto accusatorio erano state effettuate da Cristina Roccia, una delle psicologhe coinvolte nella vicenda “Veleno”, e dal marito del tempo, quel Claudio Foti del Centro Studi di Moncalieri Hansel e Gretel balzato agli onori della cronaca per il recente caso di Bibbiano.

Ricordo il giorno in cui mi ritrovai a scartabellare l’archivio online del quotidiano che sempre leggo, ogni volta che torno ai paesi miei, alla ricerca di una qualche notizia sulla strage sommersa, accaduta due anni prima della mia nascita, in quel paese dove l’estate fuggo con amiche e fidanzati alla ricerca del fresco, per un tuffo al torrente vicino.

Perché?, mi chiedo ancora, e di nuovo attorno tutto tace.

“Veleno” divenne un libro qualche mese più tardi, lo lessi voracemente in una notte di vacanza. Poco aggiungeva a ciò che già mi era stato raccontato e avevo ritrovato online, letto, riletto, sottolineato. Ancora mi confidai con gli stessi amici e conoscenti a cui avevo consigliato l’ascolto del podcast, e con loro giunsi alla conclusione che c’era un’ombra, tra le altre di questa storia maledetta, che comprometteva il racconto. Dov’erano le voci dei bambini, delle vittime e dei colpevoli, delle psicologhe corruttrici, lupi e streghe cattive?

Questa è una storia costruita sui silenzi.

Sarò sincero: me ne sono dimenticato. Per mesi, anni, per il tempo ch’è passato, il caso “Veleno” così com’era entrato nella mia vita e aveva turbato il mio pensare, m’abbandonò con l’arrivo dell’autunno. Nemmeno l’arrivo in città della giornalista Selvaggia Lucarelli, che aveva ripreso in mano il caso di Sagliano, accompagnata dall’ormai mito Pablo Trincia, mi scosse particolarmente. , In quella palestra sporca e sudata di paese, ii osservavo infervorati scongiurare il pubblico presente di parlare, di dir ciò che sapeva, se mai avesse saputo qualcosa. Li sentivo, sicuri, affermare che quelle quattro vite spezzate erano vittime, carnefici mai. Mi chiedevo se in fondo lo sapessero, e altro non si aspettassero: attorno alle favole nere, quando sono storie vere, regna il silenzio.

“Veleno” è diventato oggi una docu-serie, la guardo col ragazzo con cui abito, una sera di fine primavera, la commento con le amiche che insieme a me avevano seguito il caso, ascoltato il podcast, letto il libro, incontrato Trincia.

“Ma è lei?” – “Cazzo, è lei”. Lei è Valeria Donati, la psicologa, la strizza cervelli, la lava cervelli. Colpevole, secondo Trincia, di aver insinuato nelle menti dei bambini pensieri immondi sui loro padri e sulle loro madri. È lei, è sempre stata lei, ad averli ascoltati, curati, deviati. E ora è lì: in pullover rosa, e occhiali da vista, la messa in piega, gli occhi lucidi al ricordo della violenza ch’è stata.

“Non possono essere loro”. Loro sono Simona, Marta, Milena, Vanessa, e una notte di ventitré anni fa sono state allontanate dalle loro famiglie. Sono qui: chi adombrata, chi di profilo, chi incurante di mostrarsi per quel che è. La faccia di chi, ancora oggi, è sicura che quegli abusi ci sono stati, e non è stata una psicologa a ficcarglielo in testa, e non è stato un incubo, un sogno, una fragilità di bambino. È successo, perché questa è una storia vera.

Quindi, faccio ora quel che avrei dovuto fare prima, cioè parlare di una serie tv e di questo soltanto.

Prodotta da Fremantle, diretta da Hugo Berkeley, la docu-serie “Veleno” (disponibile su Amazon Prime Video) è un prodotto ben confezionato, di grande valore.

Il montaggio è serrato, le riprese d’impatto, così come le ricostruzioni, le immagini d’archivio, e fondamentali sono le testimonianze, capaci d’illuminare quel che fino ad oggi era rimasto il punto d’ombra della vicenda, la contro fazione silenziata nel podcast e poi nel libro di Trincia.

Ha gli echi della tragedia greca, questa vicenda, fatta di genitori e figli, così imbevuta di vita e di morte, di colpe e giustizia; una storia che prende forma attorno a un’unica, imprescindibile, domanda che tutti ancora si pongono, noi spettatori increduli, giudici, avvocati, genitori, bimbi, il paese intero: qual è la verità?

Costantemente si muove dall’amore al dolore, verso l’ombra nera della notte che tutto nasconde, e si ha paura del buio, di mamma, della strega cattiva, del lupo nero che ti alza la gonna.

“Veleno” ricorda, taglia, cuce, incolla, conferma, punisce, inquieta, commuove. Spinge chi la guarda al limite estremo della razionalità, laddove s’incontra l’incredulità, e il bene e il male non sono che territori di frontiera dai confini sfumati; lo porta a chiedersi: chi ha ragione, cos’è la ragione, cos’è un padre, una madre, una figlia, e cosa succede ai racconti della sera una volta spente le luci delle camerette dei bambini?

Equilibra saggiamente pathos e cronaca, lavora in sottrazione senza sprofondare mai nel facile melò, né nel possibile horror all’italiana

Guardandolo entriamo in quelle case, ora abbandonate, vuote, capovolte, dove null’accadde e tutto è successo; sfogliamo gli album di famiglie spezzate, smembrate, perdute, attorno a loro ci stringiamo. Piangiamo, preghiamo. Perché ciò che resta delle favole nere, quando sono storie vere, non è altro che dolore.

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