Prima avvocata iscritta all’Ordine in Italia. Lidia Poët è modernissima e pop

by Claudio Botta

La prima avvocatessa iscritta all’Ordine in Italia. Una città, Torino, a fine Ottocento sospesa tra tradizione e modernità. C’erano tutti i presupposti per un ‘classico’ biopic (tradizione Rai che va dai vecchi ‘sceneggiati’ alle agiografie in prima serata il lunedì, per intenderci), che avrebbe comunque avuto un suo pubblico e fatto riflettere per le riflessioni offerte, a partire dalle lotte per l’emancipazione e la piena realizzazione femminile ancora oggi ben lontane dalla loro piena affermazione. Invece Matteo Rovere con la partner in crime Letizia Lamartire, nella doppia veste di produttore (la sua Groenlandia si sta sempre più caratterizzando in un panorama piuttosto omologato) e regista, ha puntato su un registro meno consueto per una serie tv nostrana, in linea con il Netflix style ma al tempo stesso originale  e spiazzante, e non è un caso che il successo – almeno adesso – sia maggiore all’estero (in paesi come Germania, Austria e Belgio nelle prime settimane di programmazione è stabilmente al primo posto, e nel primo weekend è stata la terza serie più vista nel mondo dal pubblico della piattaforma) che in Italia, dove è stata arginata nella sua ascesa dal fenomeno ‘Mare fuori’.

 La storia vera è un punto di partenza, così come l’ambientazione in costume. Ma non è possibile inquadrare ‘la legge di Lidia Poët’ in un unico genere. Già la prima scena in cui compare la protagonista (interpretata da Matilda De Angelis ormai attrice affermata, non più promettente promessa) è sorprendente, disarmante, liberatoria: sesso vissuto con disinvoltura, così come il linguaggio, decisamente sopra le righe rispetto al contesto e all’epoca di riferimento. I sei episodi della prima stagione – fin troppo facile prevedere che ne seguiranno altre – presentano omicidi, indagini, situazioni brillanti e divertenti e altre che suscitano una profonda amarezza; sessismo, diseguaglianze di genere e di status, pregiudizi da affrontare e scardinare che si alternano in un caleidoscopio pop vivace e brillante. Leggeri nella confezione e profondi nel contenuto, perché la vera Lidia – nata nel 1855 a Traverse di Perrero, in val Germanasca – sin dall’adolescenza si era ribellata a una vita da insegnante di inglese, francese e tedesco (il piano dei suoi genitori e del fratello maggiore Enrico, titolare a Pinerolo di un prestigioso studio legale) e dopo gli studi magistrali in Svizzera, nel 1877 aveva scelto di conseguire la maturità classica al liceo Beccaria di Mondovì, per poi proseguire laureandosi in Giurisprudenza all’Università di Torino con il massimo dei voti. Diventata orfana, per due anni aveva continuato facendo pratica presso lo studio legale del senatore Cesare Bertea, passaggio preliminare all’esame di stato superato con la brillante valutazione di 45 su 50. Ma la legittima soddisfazione si era già nell’immediato scontrata con la realtà,  per la richiesta di iscrizione all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino prima accolta a maggioranza – un ex ministro dell’Interno e un noto legale si dimisero per protesta – , poi cancellata sia in Corte d’Appello che in Cassazione (la svolta sarebbe arrivata soltanto nel 1919, con la promulgazione della legge che finalmente sanciva il libero accesso alla professione per tutte le donne: aveva 65 anni, ma aveva comunque esercitato la professione avvalendosi della firma e della complicità di Enrico). Una vita dedicata non solo alle lotte per denunciare e rivendicare diritti negati alle donne, destinate ad avere un profondo impatto sulla società e sulla storia stessa del Paese, ma anche in difesa dei diritti dei carcerati (lodevole il suo impegno per l’istituzione di tribunali e istituti di detenzione dedicati ai minori), apprezzate a livello internazionale. Senza diventare tuttavia un’icona da celebrare, difficile da incasellare anche nel movimento femminista agli albori perché la sua personalità non poteva accettare limitazioni della sua libertà.

Una figura dalle sfumature molteplici, nella quale Matilda de Angelis si è calata con naturalezza e disinvoltura. 27 anni, cantante nel gruppo Rumba de Bodas dall’età di 16, è stata lanciata sul grande schermo proprio da Rovere, che l’ha scelta per interpretare Giulia, coprotagonista con Stefano Accorsi di ‘Veloce come il vento’ (2016), un film sorprendente e bellissimo. La consacrazione internazionale arrivata clamorosamente e fragorosamente quattro anni dopo, recitando al fianco di stelle come Hugh Grant e Nicole Kidman nella serie ‘The Undoing- Le verità non dette’ in un triangolo scabroso e intrigante, e quella nazional-popolare una naturale appendice l’anno successivo, con l’apparizione come co-conduttrice nella serata di apertura del Festival di Sanremo. La più cool della sua generazione, richiesta da registi affermati ed emergenti, cantautori come Tommaso Paradiso (appare nel video di ‘Felicità puttana’ de Thegiornalisti) ed Elisa (che ha duettato con lei in ‘Litoranea’, hit della scorsa estate), fidanzati altrettanto ammirati (gli ultimi due Pietro Castellitto, attore, regista e scrittore figlio di Sergio e di Margaret Mazzantini, e l’attuale Alessandro De Santis, cantante dei Santi Francesi, freschi vincitori dell’ultima edizione di X Factor). Perfetta per raccontare Lidia Poet alle ragazze e alle donne di oggi perché la interpreta in tutta la sua modernità e freschezza, slegandosi da vincoli storici realistici troppo rigidi e stretti, una proiezione di quella che vorremmo fosse stata e non una rappresentazione fedele e didascalica (più ‘Enola Holmes’ che ‘Downtown Abbey’, per fare parallelismi con serie analoghe in costume). Sbarazzina e appariscente con i suoi coloratissimi costumi, accanto ad Eduardo Scarpetta (che interpreta il giornalista della Gazzetta Piemontese Jacopo Barberis) e Andrea Caracciolo (Dario Aita, uno dei vertici del triangolo amoroso), convincente e credibile nel rapporto altalenante della protagonista con il fratello Enrico (Pier Luigi Pasino, la vera sorpresa della serie, capace di passare con altrettanta bravura e credibilità dal Teatro Stabile di Genova al gruppo pop folk ‘Luke & The Lion’ e all’esperienza solista).

Di grande impatto le musiche, ulteriori elementi che arricchiscono la narrazione e ci proiettano direttamente ai giorni nostri, creando magari disagio nei puristi (insieme alle continue parolacce, anche se ormai da tempo sdoganate) e alimentando giudizi agli antipodi sul prodotto complessivo.

Ma non esiste un unico modello di serialità, e le contaminazioni – se riuscite – determinano ricchezza e mai sottrazione: la globalizzazione anche nel campo artistico impone la ricerca di nuovi orizzonti, il confronto con altre espressioni e sensibilità, per non restare irrimediabilmente indietro, e per farsi conoscere e imporsi. Ben vengano quindi esperimenti inevitabilmente rischiosi, ma finalmente contemporanei.

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