Quell’animale d’un cinico: i migliori del piccolo schermo

by Gabriella Longo

Porcellini d’India per Fleabag (nell’omonima serie), nome che peraltro vuol dire “sacco di pulci”, un cane per Tony (in After Life). Quelli che a scuola ascoltavano le lezioni di greco e latino ci saranno già arrivati…per noi altri, una semplice ricerca sarà sufficiente a comprendere che nell’etimologia di cynĭcus c’è una tremenda comunanza con le qualità degli animali. Tutto viene da kynikós, e cioè “canino”, “alla maniera dei cani”, e per questo ferino, nel senso di rispondente alle uniche leggi della natura e dell’istinto. Il che, per un umano, significa, come si suol dire… essere un cane.

Da quel Hugh Laurie diventato celebre per il ruolo di Dr. House – e che si può considerare il capostipite dei cinici della televisione contemporanea- il fenomeno è in drastico aumento (e chissà come mai). Quest’anno ci sono state prove d’attore degne di nota, come il diabolico Alan Arkin de Il metodo Kominsky, bad guys (and girls) sempre troppo pericolosamente a braccetto con la morte – vedi la bravissima Natasha Lyonne (Orange is the new Black) in Russian Doll, che sperimenta una morte in loop nel giorno del suo compleanno: “it’s my bad attitude that keeps me young”, il suo spietato (e irresistibile) motto.

Cos’hanno in comune questi cattivi d’oggigiorno? Senz’altro abbaiare, tanto per rimanere in tema animalesco. Invettive contro istituzioni politiche, sociali e religiose d’ogni sorta, rompere nel modo più dissacratorio ch’esista le convenzioni etiche e morali della società presunto civilizzata. Il problema più grande dei cinici? Non sentirsi parte di quella società, mai. Attraversarla, al massimo, ma come lo farebbe (per l’appunto) una bestia a briglie sciolte, e che, all’occorrenza, ci lascia sopra pure i bisogni.

Ma ce ne sono un paio di davvero cattivi e protagonisti di due altrettanto cattive dark comedy, che in questa stagione televisiva hanno abbaiato fortissimo. Ricky Gervais, tanto per cominciare, comico impietoso che non ha bisogno di presentazioni, già noto per essere bad nell’animo ancor prima dei suoi personaggi (indimenticabili, le 4 conduzioni dei Golden Globes, durante le quali mezza Hollywood viene passata a rassegna dalla sua lingua biforcuta, o il cattivissimo monologo Humanity disponibile su Netflix).

Non è stato troppo difficile per lui, dunque, interpretare Tony in After Life (da lui anche diretta, e da marzo su Netflix), un uomo con una vita mediocre, impiegato presso un giornale locale mediocre, circondato da persone mediocri (i colleghi di lavoro bizzarri, una prostituta, un tossico, il padre in ospizio, mezzo rimbambito che sproloquia sulle donne).

Le sue giornate gli scivolano davanti fra un’azione routinaria e l’altra, fra una spruzzata di veleno al postino e una al bambino grassottello che bullizza suo nipote nel cortile della scuola. Sappiamo, però, che prima era diverso, prima della morte della moglie, che intanto gli ha lasciato dei video messaggi nei quali si raccomanda che Tony si prenda cura del cane, che faccia le pulizie o semplicemente che si ricordi di essere felice. Ma Tony non ci prova nemmeno, perché non ha senso vivere per tirare a campare quando l’unica ragione di felicità per lui è racchiusa dietro lo schermo d’un computer. È quindi più facile comportarsi da stronzo, ma non tanto per attaccare quanto per proteggersi dal dolore, alla stregua di un animale selvaggio, nonché un modo meno coraggioso di suicidarsi, auto espellendosi dalla società.

Poi c’è quel genio di Phoebe Waller-Bridge (Killing Eve), che dal teatro, è approdata al piccolo schermo come showrunner di un prodotto tragicamente perfetto come Fleabag, già alla sua seconda stagione (da maggio disponibile su Amazon Prime Video), già vincitore di un Bafta nel 2017, e ora grande protagonista degli Emmy. Fleabag, come Tony, ha chiuso col mondo, riconoscendo impossibile superare il trauma della perdita della migliore amica e della madre. Ma questa volta, il tentativo di auto-sabotaggio, è paradossalmente quello di intraprendere una miriade di relazioni e sempre con uomini sbagliati, per poi ritrovarsi immancabilmente da sola a fare i conti col proprio vuoto, come con il prete della seconda stagione (interpretato da quel pazzo d’un “dinamitardo” di Andrew Scott).

Anche la sua vita è un teatrino tragicomico (e si respira davvero tanto teatro soprattutto quando Fleabag si gira a parlare con noi, rompendo il muro invisibile della quarta parete), popolato dalla solita famiglia sfasciata, col padre ricchissimo che sta per sposarsi la detestabile artista (che la bravissima Olivia Colman riesce davvero a rendere repellente), con la sorella magra e isterica che con lo stakanovismo cerca di dimenticare il fallimento del suo matrimonio.

L’ “ascetico” (e qui il termine è calzante) percorso del “sacco di pulci”, non ha chiaramente nulla a che vedere con Dio ma è tutto umano, forse fin troppo, alla faccia della bestialità dei cinici. Il suo sarcasmo è nero, e la sua “normalità”, con quella patetica caffetteria a tema porcellini d’India, persino fastidiosa (la sorella immancabilmente isterica glie lo urla, “smettila di essere così normale!”), così come quel suo sensazionale modo di rovinare ogni momento con una battuta fuori posto o con l’acrimonia di un commento.

Eppure la Waller-Bridge, con Fleabag è diventata il volto di una nuova rivoluzione dell’universo femminile nella televisione, di quelle che a discapito di tanti modelli pop, non hanno paura di presentarsi al mondo col mascara colato sul viso, e di dare corpo al fallimento, al dolore, perché tutto questo fa parte della vita.

Entrambi ci fanno ridere, Tony e Fleabag; sarà che sono inglesi, sarà che sono spietati e politicamente scorretti, il che fa bene al sin troppo buonismo della televisione, che ci ha abituati a sperare sempre nei supereroi. Oscar Wilde diceva che il cinismo è “l’arte di vedere le cose come sono, non come dovrebbero essere”, quindi sorge il dubbio che questi signori sappiano qualcosa che gli altri non vedono, e che nella “normalità” di quel buco di mondo che si sono costruiti, e al quale immancabilmente ritornano, sia nascosto qualcosa di tremendamente importante.

E poi, chissà perché a vederli prendere a calci la vita così duramente, si finisce sempre ed immancabilmente per amarla un po’ di più anche noi.

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