Robbie Williams, il ritratto sincero e drammatico di una popstar fragile e avversata dalla stampa inglese

by Claudio Botta

Nessuna autocelebrazione o agiografia, nonostante i milioni di dischi venduti e tour mondiali sold out, ma un doloroso, sincero, spietato e toccante confronto con sé stesso, un sofferto viaggio in traumi, incubi, crolli e passaggi esistenziali che “una persona dovrebbe fare soltanto davanti a San Pietro, all’ingresso del paradiso” e non alla soglia dei 50 anni che si possono moltiplicare per chissà quanti altri. Robbie Williams guarda scorrere ore e ore di immagini (molte delle quali per la prima volta) della sua carriera e della sua vita in un MacBook, in canotta e boxer neri, disteso in salotto e sul letto, le commenta con parole, sguardi, movimenti lontanissimi dalle esuberanze e dalle pose dalla popstar planetaria conosciuta finora: è l’ambientazione della docuserie Netflix diretta da Joe Pearlman e prodotta da Asif Kapadia, e lascia il segno, come ognuno dei quattro episodi dall’andamento così diverso da come ce lo aspetteremmo, non importa se fans o spettatori distratti.

Il racconto inizia dal sedicenne che lascia la scuola per entrare nei Take That, la boy band che brucia tutte le tappe in pochi mesi e proietta all’alba degli anni Novanta i suoi componenti in un’isteria collettiva registrata a quel livello soltanto con i Beatles. Il più piccolo, quello più sovraesposto alle pressioni, alle aspettative esagerate, alle responsabilità e alla sensazione costante di inadeguatezza, quello più geloso e insofferente della personalità e della sicurezza del leader Gary Barlow: le droghe (cocaina, ecstasy) e l’alcol diventano le precarie e improbabili stampelle cui aggrapparsi, ma cadere è inevitabile, così come la fine di un’esperienza esaltante ma mai pienamente goduta (come gran parte degli anni che verranno) dopo 5 anni. E il perdersi nella capitale inglese tra una festa e una sbornia, alla ricerca di un’identità e di nuovi obiettivi. La preparazione del primo album solista, Life Thru A Lens, lo porta a conoscere e scegliere come coautore di testi e musiche Guy Chambers, ed avviare uno straordinario sodalizio artistico e umano, in Inghilterra (senza scomodare la coppia sacra Lennon-Mc Cartney) paragonabile soltanto a quello tra Elton John e Bernie Taupin per la quantità e qualità di hit prodotte. Bisogna però passare per due mesi di disintossicazione forzata per ripartire davvero, a 23 anni, e lottare per non diventare “una meteora”.

Ma i primi due singoli non decollano, l’album vende appena 33mila copie e la casa discografica sta pensando di scaricarlo: a salvarlo arriva però Angels, “il razzo” che lo rilancerà verso un successo mondiale tutto e soltanto suo, la canzone che successivamente verrà consacrata come la più bella negli ultimi 25 anni in UK. I due album successivi (I’ve been expecting you e Sing you’re winning) confermano un’ascesa che sembra inarrestabile, il concerto di Glastonbury davanti a 80mila spettatori in delirio sembra la definitiva consacrazione, ma la salute mentale è sempre in equilibrio precario per la diffidenza nei confronti di chi lo circonda, e rovina anche la sfera più privata, le relazioni con Nicole Appleton, cantante delle All Saints, e soprattutto quella con Geri Halliwell, Ginger delle Spice Girls, altra icona dell’epoca: bellissime le immagini di una loro vacanza nel sud della Francia, una coppia di giovani star alla ricerca di una impossibile normalità di coppia, assediata da centinaia di paparazzi e dal sospetto che sia proprio lei a cercarli e chiamarli. Una vacanza che segnerà di fatto la fine di un rapporto così importante e di attimi davvero felici, e la nascita di un capolavoro, Eternity, dedicato a lei.

La stampa inglese avrà un ruolo decisivo nel drammatico percorso ad ostacoli prossimo venturo nonostante l’enorme successo di vendite e di pubblico ai concerti. Per la stroncatura feroce delle sue canzoni, che un talento sensibile e fragile non riesce a ignorare. La ricerca di nuove direzioni da seguire porta alla rottura con Chambers (rivissuta con nostalgia), che lascia profonde ferite interiori. La nuova crisi esplode fragorosa durante il faticoso tour Close Encounters, nel quale viene lanciato il singolo Rudebox -una incursione poco fortunata nel rap e nell’hip hop- che viene definito da un tabloid “Robbie’s new single is the worst song ever” (la peggiore canzone di sempre): dovrebbe essere giornalismo, è spazzatura, è benzina che Star, Mirror, Sun in particolare spargono sul fuoco di una popstar che non ha protezioni contro cattiverie gratuite e che giorno dopo giorno lo portano a interrogarsi sul suo valore, sulla sua credibilità, sul reale impatto del suo lavoro. E’ la parte che fa più male guardare non solo per il diretto interessato, che soffre vistosamente nel vedere il suo sguardo perso e impaurito e nel rivivere l’incubo di un concerto a Leeds trasmesso in diretta in tv e nei cinema del suo Paese e condizionato per tutta la sua durata da un attacco di panico: un incubo destinato a segnare quegli anni in maniera devastante, perché un attacco di panico -e lo sa bene chiunque ne abbia sofferto e ne soffre- come prima conseguenza lascia il terrore che si ripresenti, e se devi esibirti ogni sera davanti a decine di migliaia di persone, sei a pezzi ma non puoi fermare una giostra impazzita che dà lavoro a migliaia e migliaia di persone, nessun fisico e nessuna mente può reggere. In epoca pre-social, il ruolo degli haters è giocato da giornalisti che dovrebbero interrogarsi sulle loro pesanti responsabilità e sul peso di parole ed articoli, che può spingere qualsiasi persona, dalla più potente alla più fragile, sul ciglio dell’abisso e oltre. E’ la riflessione più importante che il documentario consegna, senza scomodare il fantasma di lady Diana e della folle corsa (causata dalla fuga dai paparazzi) nel tunnel dell’Alma a Parigi.

Il palco, l’habitat naturale per un cantante brillante, per un cantautore talentuoso e per un entertainer nato e sfacciato, tornerà ad essere meno ostile soltanto dopo una reunion con i Take That e un’estate di quiete e sereno dopo troppe tempeste. Nella vita privata, la svolta tanto attesa è arrivata invece con l’arrivo nella sua vita di Ayda Field, attrice sposata nel 2010 e che ha saputo aspettarlo e accompagnarlo con il suo amore e la sua presenza nell’uscita dal tunnel della cocaina, assunta anche durante il loro primo appuntamento, e dei loro quattro figli Teddy, Charlton, Colette e Beau Benedict, che compaiono in momenti tenerissimi di normalità da sempre desiderata e finalmente conquistata e gelosamente protetta.

Ayda Field, sua moglie

Le immagini finali, chiuso finalmente il laptop, restituiscono un uomo che ha fatto i conti con i demoni del suo passato e della sua natura, con coraggio e consapevolezza, che sta imparando a cavalcare il cavallo del successo che lo ha più volte disarcionato, che trova nella sua famiglia la sua dimensione e il suo rifugio, senza però rinunciare al suo lavoro e al suo sentirsi vivo, realizzato. Il tour celebrativo XXV (sono gli anni della carriera solista) sta facendo registrare sold out in ogni tappa in ogni parte del mondo (in Italia è stato all’Unipol Arena di Bologna nello scorso gennaio e a Lucca in estate), e un rinnovato amore per Robbie Williams. Dopo aver visto la docuserie, gli applausi saranno ancora più scroscianti e meritati.

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