Squid game: un oggetto geopolitico che racconta la Corea del Sud, il debito illegale e il lato oscuro della crescita. Su Netflix

by Modesta Raimondi

Chi pensa che le serie tv siano mero intrattenimento si sbaglia di grosso. Talvolta le serie tv sono prodotti geopolitici carichi di allegorie, che molto raccontano delle società contemporanee, accendono l’attenzione su paesi lontani, producono dibattiti sulla democrazia, svegliano curiosità su culture che meno di altre hanno colonizzato il nostro immaginario collettivo.

Alcune serie descrivono relazioni gerarchiche tra persone, che cambiano forma ma non contenuti nel corso dei secoli; illuminano le dinamiche del potere e le conseguenze che questo (portato all’estremo) ha sulla gente, con una visionarietà che molto ha a che fare col genio.

Stiamo parlando del felicissimo caso di Squid game, serie Netflix più vista di sempre, creata e diretta da Hwang Dong-hyuk, che in poco più di un mese, dalla sua uscita del 17 settembre ad oggi, è stata vista da oltre cento milioni di utenti, con un pubblico intergenerazionale che ha spinto educatori e psicoterapeuti a riferire riguardo il rischio emulazione.

Lucida, concettuale, folle e solo falsamente irreale, la prima stagione di Squid game alza di molto la statura della serialità coreana, impreziosendo il made in Corea (del sud).

Così come Parasite (diretto da Bong Joon-ho e vincitore della Palma d’oro a Venezia) anche Sqid game mette a tema la feroce disparità tra classi sociali.

IL DEBITO

La parola chiave è “debito”.

Tra i primi oggetti in scena le banconote prestate (o regalate) dalla mamma del protagonista. Tra le ultime voci, quella della giornalista che informa sul grave indebitamento della popolazione media coreana. Il debito dunque, il leitmotiv che accompagna il risveglio del personaggio dopo il trauma. Una rinascita, la sua, che simbolicamente comincia dal nuovo colore dei capelli, mentre il notiziario sullo sfondo contribuisce alla sua presa di coscienza.

La storia è nota e racconta di 456 disperati che accettano di partecipare ad un gioco sanguinario. Democraticamente, ovvio. Tra le pochissime regole (solo tre) da sottoscrivere per l’ingresso in arena, c’è quella secondo cui il gioco può essere interrotto a patto che la maggioranza lo desideri.

E la maggioranza democraticamente vota e lo interrompe, dopo aver preso coscienza del livello di rischio e della follia del tutto; salvo cambiare idea quando torna in strada, faccia a faccia con la disperazione della propria esistenza.

La democrazia dunque. Una democrazia che diventa una parola vuota se la libertà di scelta è inesistente. E che anzi si trasforma in boomerang sulle spalle di chi sceglie. Quelle dei giocatori, ad esempio, che da bisognosi appaiono ingordi.

Quei giocatori che alzano lo sguardo in direzione del gigantesco salvadanaio stracolmo di denaro appeso sul soffitto e da lì orientano i loro comportamenti.

Il denaro è il totem. Anche figurativamente lo è.

Di fronte alla possibilità di essere solidali distribuendo i soldi alle famiglie delle vittime, i giocatori optano per l’individualismo. Potrebbero uscire dall’inferno ma non lo fanno. Giocano fino alla fine, costretti ad una lucidità sempre più abbagliante che li devasta. Sono obbligati a rinunciare ad ogni forma di empatia umana, mentre sulle loro spalle si posa il peccato dell’ingordigia. Già, perché contrappore alla miseria più nera una gigantesca somma di denaro può rappresentare un succulento esperimento sociale per chi osserva. Cosa può diventare un indigente posto di fronte a scelte terrificanti? Quanto muore l’umanità e quanto la speranza?

Ed è infatti sulla speranza che spende le sue ultime parole uno dei protagonisti cattivi. Quella speranza che ai suoi occhi si nega e che al giocatore 456 viene invece mostrata.

Proprio alla fine, proprio mentre tutto sembrava perduto, un’auto arriva e soccorre l’uomo sul marciapiede, la cui sorte era stata utilizzata dallo strozzino come esempio del cinismo umano. Cosi Gi-Hun può ritornare a sé stesso, può trovare una sponda alla sua irredimibile umanità.

I letti dei 456 giocatori evocano i dormitori dei campi di sterminio nazisti, così come le divise e i numeri che ne sostituiscono il nome. Il pretesto però non è la razza, ma la subalternità sociale. E nel mettere a tema la divisione di classe e il capitalismo, Hwang Dong-hyuk ha fatto un gigantesco passo avanti rispetto a prodotti pure interessanti come Hunger Games.

Se all’inizio della storia Gi-Hun scommetteva sulle corse dei cavalli, una volta dentro il cavallo diventa lui. Ed è sulla sua capacità di sopravvivenza che qualcun altro scommette.

Ma chi è che muove le redini del gioco? Di chi sono gli occhi perversi che guardano ogni cosa?

A capo di una spietata gerarchia sociale, c’è un’élite di ricconi che deride la vita umana capeggiata da uno strozzino. Perché in una società oppressa dal debito, chi altri può essere il leader indiscusso se non colui che presta denaro a pagamento?

Oltre al debito e alla democrazia, c’è un altro tema che Hwang Dong-hyuk ha posto al centro ed è l’infanzia.

L’INFANZIA

Il richiamo alla fanciullezza è ovunque: nei giochi dei bambini che costituiscono le prove, nelle musichette ipnotiche che creano bizzarre atmosfere, e perfino nel campo d’infanzia bagnato dalla pioggia e dal sangue su cui, così come facevano da piccoli, due ex amici sono costretti a competere.

L’infanzia è la sola età in cui sono stato felice, spiega lo strozzino milionario. Perché quando il denaro è troppo, dice, non c’è più nulla che regali gioia.

Ed è per questo che i ricchi hanno inventato tutto, riproducendo un mondo che consentisse di tornare a quelle emozioni puerili che lo strapotere finanziario ed economico hanno negato.

Il denaro che crea debito, distrugge esistenze, annienta identità personali e mortifica le relazioni familiari, è lo stesso denaro che svuota le vite dei super ricchi, impedendo loro di vedere il prossimo e soprattutto di restare umani.

Cosa è dunque l’infanzia, questo tempo privo di gerarchie sociali e bisognoso dell’altro, quale tappa descrive dell’esistenza umana? C’è forse qualche forma di semplicità a cui dovremmo tornare? E soprattutto, l’infanzia è solo quella delle élite in scena o rappresenta un simbolo anticapitalista?

Certo è che la critica al capitalismo è la prima delle interpretazioni che il mondo ha dato alla serie. Di fianco, geopolitici esperti possono leggere nel dettaglio la storia della Corea del sud, quella di un paese che ha il più alto tasso di suicidi tra gli anziani (che non producono e spesso vivono sotto la soglia di povertà), in cui il consumo di alcol è molto diffuso e la pandemia ha consentito un accesso al prestito senza precedenti.

I 456 concorrenti del Gioco del gambero sono gladiatori post moderni che invece che combattere con bestie feroci si ammazzano tra loro.

La classe dominante è dunque peggiorata dai tempi degli antichi romani.

Le serie tv servono anche a questo. A cogliere, nella visionarietà folle dei registi, i rischi del capitalismo e di una falsa democrazia.

Rischi immaginari, ovvio, a meno che qualcuno non riconosca in Squid game poteri reali che giocano con la vita della gente.

IL CORPO DEL CAPO

Ultima riflessione merita la controversa figura dell’uomo a capo dell’élite di milionari: tenero, privo di forza fisica, vulnerabile, amabile per l’intera stagione. La sua non è una autentica crudeltà quanto piuttosto un totale estraniamento dalla vita umana.

Il due numeri, il primo e l’ultimo, che prima si legano e dopo si illuminano a vicenda donandosi consapevolezza, sono i due poli opposti di una catena sociale: la testa e la coda di una società i cui estremi possono incontrarsi solo nella follia.

Un gioco feroce come quello del gambero meriterebbe un capo forte, possente, temibile. Se questo non accade è proprio perché è nella distrazione che si nasconde il pericolo maggiore. È in quel tumore al cervello che rende smemorati e distratti il rischio più grande.

Memoria (storica) e attenzione (come la intendeva Simone Weil) sono un anticorpo possente a qualunque incubo distopico. È questo che sembra dirci il  regista coreano.

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