The Offer, un dietro le quinte avvincente e riuscito della genesi del Padrino

by Claudio Botta

Nella lunga storia del cinema, carriere, miti e destini sono stati determinati spesso da scelte difese con ostinazione, a volte da scelte rivelatesi disastrose che hanno spalancato un’autostrada verso il successo a colleghi/colleghe. Per fare solo due esempi, qualcuno riesce a immaginare un cult come American Gigolo di Paul Schrader senza il suo protagonista, Richard Gere? Per il ruolo di Julian Kay, fascinoso escort destinato a far perdere la testa a Lauren Hutton e a infinite donne generazione dopo generazione, la produzione aveva scelto John Travolta (dopo il rifiuto iniziale del compianto Christopher Reeve), indiscusso sex symbol dell’epoca, reduce dal doppio, travolgente successo di Saturday night fever e Grease, per il quale Giorgio Armani aveva già spedito ad Hollywood vestiti diventati iconici. Ma un rapporto difficile con il regista e il timore di un danno d’immagine – legato allo script scabroso – per la carriera in ascesa lo spinse a tirarsi indietro poco prima dell’inizio delle riprese (per girare poi un flop, Urban Cowboy). Il personaggio di escort condizionò anche Daryl Hannah e altre celebri colleghe (su tutte, la fidanzatina d’America Meg Ryan) nel rifiutare la parte di Vivian in Pretty Woman, poi interpretata da Julia Roberts. Ma The Godfather (Il Padrino), uno dei film più belli di sempre, perfetto in ogni dettaglio, in ogni inquadratura, in ogni personaggio, è probabilmente un caso eccezionale per le incredibili combinazioni e avversità affrontate, che la miniserie The Offer prodotta da Paramount + e creata da Michael Talkin e da lui sceneggiata con Nikki Toscano, racconta in dieci puntate in maniera avvincente. Un omaggio doveroso a un capolavoro che lo scorso anno ha festeggiato il traguardo del mezzo secolo, che va ben oltre l’operazione nostalgia e la necessità di spremere filoni vincenti, in assenza di idee e voglia di rischiare: perché la sua genesi è talmente ricca di spunti, aneddoti, storie potentissime da reggere benissimo come impianto narrativo e interesse suscitato nello spettatore. A partire dall’inizio di tutto: il grande successo del romanzo di Mario Puzo, ma al tempo stesso la marcata avversione della mafia italo-americana, preoccupata per i riflettori accesi sui loro business illeciti in costante ascesa, e per la rappresentazione complessiva degli italiani emigrati negli Stati Uniti. Un’avversione che, alimentata soprattutto dalla star Frank Sinistra, ha a lungo messo in discussione la stessa possibilità di girare il film, con il via libera arrivato soltanto dopo lunghissime trattative sottobanco condotte da un produttore giovane, ambizioso e coraggioso. La delicata situazione della Paramount all’epoca, in condizione finanziarie disastrose e soffocata da rivalità interne e lotte spietate che condizionavano pesantemente decisioni e produzioni. I due pilastri, i giovani Francis Ford Coppola (regista) e Albert Ruddy (produttore), convintamente ostinati in difesa delle proprie scelte, in lotta contro tutto e tutti e sempre sul filo del rasoio. Il cast e le location oggetto di trattative logoranti, che possono sembrare assurde alla luce del prodotto finale ma all’epoca hanno rischiato continuamente di sabotare e affondare il film.

Coppola nel 1971 aveva 32 anni, e aveva già vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura per Patton, generale d’acciaio. Contattato dalla Paramount che aveva acquistato i diritti del libro, chiese come co-sceneggiatore lo stesso autore, che accettò solo perché in pesanti difficoltà economiche. Il primo, enorme scoglio si rivelò la scelta dell’attore protagonista. Per lui il padrino don Vito Corleone aveva il volto, la voce, la postura, la mimica, la personalità di Marlon Brando, ma il divo era ritenuto dagli Studios ingestibile e nella fase terminale della carriera, ad appena 47 anni: lo scontro intorno al suo nome si rivelò un estenuante tiro alla fune, e Robert Evans (vertice apicale Paramount) cedette solo dopo la firma di un contratto blindato, un cachet ridotto ai minimi termini e un provino improvvisato nella sua villa che lasciò tutti senza parole. Tutti sappiamo come è andata a finire: a Brando è bastato mettere del cotone per ingrossare e deformare la mascella, impostare la voce roca, improvvisare carezze a un gatto in una delle tante scene madri per entrare definitivamente nella leggenda e vincere l’Oscar (ma disertando la cerimonia di consegna della statuetta, il 27 marzo 1973, per plateale protesta per la condizione e la rappresentazione degli indiani d’America nell’industria cinematografica e televisiva: al suo posto mandò l’apache Piccola Piuma). E avrebbe poi regalato a Coppola e al mondo un’altra interpretazione straordinaria, quella del tenebroso colonnello Walter Kurtz in Apocalypse Now.

Altro motivo di durissimo scontro: il ruolo di Michael Corleone, che Coppola voleva riservare al 31enne Al Pacino, nato a New York da genitori originari della Sicilia e da lui ritenuto perfetto, nonostante la disponibilità di attori del calibro di Robert Redford, Warren Beatty, Jack Nicholson. Anche lui, attore teatrale giudicato da Evans brutto, basso e di nessun appeal (“un gamberetto”), fu costretto a un provino che superò brillantemente e che gli garantì un’occasione decisiva per il lancio della sua carriera. E ancora, le scene girate in esterna a New York e in Sicilia, nonostante il budget irrisorio, ma essenziali per lo sviluppo della trama. La lunghezza del materiale girato e del montaggio originale, ritenuto un disastro annunciato per la programmazione ridotta in sala. I tempi di uscita e distribuzione della pellicola. Previsioni sinistre, smentite dall’ovazione del pubblico alla prima, e dalla bellezza di una trasposizione cinematografica che va molto oltre i ritratti, le convenzioni, i mondi evocati nel romanzo.

The Offer non è quindi un semplice dietro le quinte romanzato, ma un racconto incalzante e ben articolato di una lavorazione così complessa e adrenalinica, dei saliscendi emotivi tra l’eccitazione derivata dalla consapevolezza delle potenzialità e delle qualità, e la disperazione derivante della certezza che un singolo ingranaggio fuori posto avrebbe compromesso inesorabilmente tutto. Miles Teller interpreta credibilmente Ruddy, ambizioso e testardo al punto da mettere in discussione e sacrificare la vita privata: anche lui il ruolo se lo è dovuto sudare, dopo che il protagonista designato, Armie Hammer, è stato depennato travolto dagli scandali e da vicende private dall’impatto fragoroso sull’opinione pubblica. Matthew Goode (ammirato in Match Point di Woody Allen, tra i tanti suoi lavori) è brillante come Robert Evans nelle sue versioni così differenti e agli antipodi, Juno Tempe è una Bettye Mc Cart intensa.  Giudizio sospeso per Justin Chambers, chiamato a percorrere senza alcuna rete di protezione il filo sottile che partendo dal dottor Karev di Grey’s Anatomy porta fino a Marlon Brando. Un viaggio nel tempo suggestivo, che merita una visione approfondita e non distratta. E chissà se Matteo Messina Denaro, fan dichiarato del film come testimoniato dal manifesto e dai gadget trovati nei vari covi scoperti dalle forze dell’ordine dopo il suo arresto, è riuscita a vedere anche la serie.

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