The Undoing: fino a che punto possiamo non vedere l’evidenza?

by Paola Manno

Trasposizione cinematografica di Una famiglia felice di Jean Hanff Korelitz, pubblicato in Italia da Piemme, The Undoing – Le verità non dette è sicuramente una tra le serie più attese e disponibile su Sky Atlantic.

Per metà thriller psicologico, per metà ritratto intimo e doloroso di una donna, la serie si avvale di un cast stellare: Nicole Kidman (Grace) e Hugh Grant (Jonathan) sono i brillanti protagonisti che interpretano una coppia di newyorkesi della Upper Class che si ritrova, fin dalla prima puntata, di fronte ad un’accusa di omicidio.

La vittima è la giovane, bellissima e indigente amante del marito, Elena, interpretata magistralmente da Matilda De Angelis, attrice italiana che riesce a tirar fuori sensazioni opposte come la disperazione, il senso di rivalsa, un’irresistibile attrazione, il desiderio dell’amore e quello di vendetta, tutte insieme. Nel personaggio di Elena il bene e il male si confondono e restituiscono l’incomprensione dei fatti della vita, come pure il senso di profonda ingiustizia di chi muore per colpe che pare si debbano, in qualche modo, sempre cercare. A questa donna alla quale è impossibile resistere (la stessa Grace ne è inesorabilmente attratta) si contrappone dunque una famiglia felice che è, innanzitutto, una famiglia ricchissima. La fortuna dei coniugi è sfoggiata, esibita, urlata, ci sono inquadrature, dettagli, scelte, discorsi che rasentano lo sfacciato disprezzo: viene raccontata infatti la disgustosa verità che i soldi possono comprare quasi tutto, a cominciare dalla libertà su cauzione.

Impossibile non notare i meravigliosi, ricercatissimi abiti di Grace Fraser, psicoterapeuta di coppia, nel corpo algido, sottile ed elegante di Nicole Kidman, lontanissimo dall’ostentata, prospera fisicità della vittima. Anche Jonathan, oncologo infantile amatissimo dai piccoli pazienti e dai loro genitori, ha l’aria di essere un padre perfetto, così casualmente affascinante mentre accompagna il figlio a scuola passeggiando sulla neve al Central Park. Chi sono queste persone? Come vivono? Sono felici?
Difficile immedesimarsi in una donna come Grace, quella delle cene di beneficienza e il cappotto ricamato. Eppure da subito lo spettatore capisce l’inganno, e allora diventa quasi scontato restare al fianco di una donna che scopre di essere stata tradita, ingannata. Siamo sempre accanto a lei e accanto a lei scopriamo, puntata dopo puntata, tutte le verità non dette, le parole nascoste che danno il titolo alla storia.

Così Grace diventa la rappresentazione di chi apre gli occhi, all’improvviso, su una verità che trova inaccettabile. Succede a molte persone: la scoperta che l’altro, colui che amiamo, è uno sconosciuto. L’incredulità di fronte a prove certe. Il bisogno di trovare un senso, una giustificazione. Suo marito è un traditore, è innegabile, ma è anche un uomo capace di uccidere una donna? Fin dove è potuto arrivare? Ci sono altri indizi, altre piste da seguire? Se all’inizio l’accusa sembra inchiodare Jonathan, puntata dopo puntata la verità sembra vacillare. Chi era lì quella maledetta notte?
Se da una parte, dunque, la ricerca dell’assassino tiene in pugno la curiosità dello spettatore, c’è un mistero più forte che ci spinge a non smettere di guardare, ed è la domanda: “Fino a che punto possiamo non vedere l’evidenza?”. A me pare che l’interesse della regista sia piuttosto quest’ultimo, e che abbia voluto spingere lo spettatore più alla riflessione che al ragionamento. Lo dimostrano i numerosi primi piani sugli occhi di Grace, sulle palpebre tremanti, sulle pupille dilatate. Le immagini che ritornano di giorno, di notte, davanti al suo sguardo: quegli altri occhi chiusi per sempre, quelli di Elena che non diranno mai la verità. Il sentimento di incredulità coinvolge più della scoperta del nome dell’assassino e la battuta del ricchissimo padre di Grace (l’impeccabile Donald Sutherland) ne è l’emblema: “Ma davvero non vedi tutto questo?” .

Dal giudizio si passa allo strazio, dalla ricerca dell’assassino alla ricerca di sé, perché ognuno ha qualche volta creduto a delle cose che erano altre cose, perché ognuno ogni tanto non ha visto, non ha voluto vedere, ha cercato con l’anima mille altre meno dolorose verità.

Ancora una volta Susan Bier, regista di film preziosi come Dopo il matrimonio (2006), Noi due sconosciuti (2007) e l’imperdibile In un mondo migliore (2010), Oscar come miglior film straniero, mette al centro un dramma di coscienza. Per questo il finale, molto criticato sui social, a me sembra l’unico possibile. Anzi mi sembra che spalanchi le porte ad un’altra domanda ancora più interessante: “Vedere o non vedere, è una colpa che si paga?”

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