The Walking Dead, la serie di zombie più vista di sempre

by Daniela Tonti

Arrivata alla nona stagione, The Walking Dead è una delle serie più viste ed esportate di sempre oltre che un esempio da manuale di prodotto cross-mediale con personaggi che saltano letteralmente dal fumetto alla serie per poi approdare allo spin-off e live action con relativo, universale merchandising.

Nasce dal fumetto di Robert Kirkman nel 2003 e diventa serie AMC nel 2010 registrando numeri incredibili, oltre 200milioni di spettatori in tutto il mondo. E’ ambientata in un mondo distopico post apocalittico dove orde di zombie hanno invaso geografie fisiche e umane devastando non solo il mondo ma anche qualsiasi traccia di etica o senso di giustizia rimasta sul loro cammino. La spietata lotta per la sopravvivenza, la perdita degli affetti, l’aggregazione in gruppi di individui eterogeni in lotta tra loro sono le dinamiche delle linee narrative che si sviluppano sin dalle prime battute condite da fughe rocambolesche, mcguffin strategici e cliffanger da tenere il fiato sospeso, almeno nelle primissime stagioni. Su questo scenario si stagliano le figure dei protagonisti, lo sceriffo Rick Grimes e la sua famiglia prima perduta poi ritrovata e infine dissolta un pezzo alla volta alla ricerca continua di un posto sicuro.

La prima differenza sostanziale rispetto al copioso genere disaster movie è che la ricerca della causa, del paziente zero o della cura e cioè i topos classici di queste storie passano in secondo piano per scomparire  del tutto già dalla fine della prima stagione. Dopo una breve parentesi nei primissimi episodi, una dei quali ambientata in un centro di ricerche di Atlanta (episodio peraltro pare disconosciuto dagli autori stessi della serie), l’argomento verrà definitivamente archiviato.

La serie si apre con il risveglio dal coma del protagonista che viene catapultato in una realtà terrificante ed  è subito messo davanti alla prima prova, uscire vivo, scalzo e mezzo nudo da un ospedale infestato di pericoli. L’ospedale in cui era ricoverato è perduto ormai invaso da zombie, quella che sembrava un’epidemia circoscritta quando è stato ricoverato per un incidente di servizio nel giro di poco tempo ha preso il sopravvento, gli zombi assaltano gli umani, li azzannano e il contagio è assicurato in una spirale senza fine.   

Inizia così un peregrinare senza fine che si protrarrà tra alti e bassi televisivi per nove stagioni ognuna con un diverso antagonista sempre più violento, sempre più spietato e fuori di testa. Non le orde o mandrie di vaganti che pure costituiscono un pericolo continuo, ma le persone o quello che ne resta. Dallo psicopatico governatore di Woodbury  (un presidio di sopravvissuti)  che tiene sotto chiave la figlia zombie, a un gruppo di cannibali rifugiatisi in un agglomerato ferroviario chiamato Terminus ovvero fine della strada e fine di ogni etica, fino alle minacce delle ultime stagioni, Negan e i sussurratori. Parallelamente si sviluppano storie positive di comunità in cui si tenta una ricostruzione possibile non solo della vita ma anche di forme di ordine sociale come Alexandria, Hilltop, il Regno e Oceans’ Side.

Ciascuno compone un pezzo di un immaginario puzzle di perdita o mantenimento dell’etica e deriva più o meno catastrofica  cui può approdare l’essere umano, uccidere una persona per salvarne altre dieci, sacrificarsi o suicidarsi. Ed è proprio il limite umano da superare una delle chiavi del successo di The Walking Dead, insieme al trucco, agli effetti speciali, alla recitazioni di grandi interpreti come Andrew Lincoln o Jeffrey Dean Morgan.

Le ragioni del successo delle storie sviluppate in Walking Dead non per niente sono da collegare secondo alcuni critici alle teorie filosofiche utilitaristiche e al fascino che esse esercitano sullo spettatore attraverso il processo di immedesimazione. John Stuart Mill sosteneva che le regole per stabilire cosa fosse giusto o sbagliato dovevano puntare a conseguire il bene per il maggior numero di persone, anche se qualcuno rischiava di rimetterci, la sua teoria è nota come “utilitarismo” perché si basa sull’utilità di una regola morale. E dunque in uno scenario in cui i fronti di pericolo sono duplici, zombie e umani, i dilemmi dei personaggi su cosa sia giusto fare sono sempre al centro della narrazione televisiva spingendo lo spettatore a chiedersi è giusto? Io cosa farei?

Hume sosteneva che le persone considerano giusto un comportamento non per motivi razionali, ma perché li fa sentire buoni e allo stesso modo considerano sbagliato un comportamento perché provano un senso di disgusto.

La consapevolezza morale emerge da un sentimento immediato e da una più profonda idea di sé.

David Hume

La maggior parte di noi tende a pensare che quando decidiamo se una cosa è giusta o sbagliata, lo facciamo ragionando. Ma la neuroscienza ci dice invece che le emozioni hanno un ruolo fondamentale nella formulazione dei giudizi morali, perché provocano reazioni istintive, frutto di milioni di anni di evoluzione. Ed è questa una lettura dell’effetto che hanno avuto sullo spettatore tante scene sorprendenti o quantomeno inattese della serie, in cui le decisioni non rispecchiano la natura di chi le prende. Tra queste c’è una delle scene più terrificanti di Walking Dead. Il protagonista Rick Grimes, disarmato e sotto scacco di un gruppo di banditi perde totalmente la testa dopo l’allusione alla volontà di stuprare suo figlio. Lo sceriffo tira fuori un istinto animale mutuando dagli zombie la tecnica di assalto, saltando alla giugulare del nemico e strappandogli la carne dal collo in una delle scene più terrificanti e violente non solo della quarta stagione ma dell’intera serie.

C’è un triplo ordine di considerazioni da apporre come epigrafe al tutto: la suspense che non si discute, il messaggio ambiguo e il lerciume del male molto difficile da digerire a livello drammaturgico. Nulla è definitivo e non si è mai al sicuro e ogni pianificazione di ordine o speranza sociale viene abrogata dalla tattica della guerra e dall’urgenza della sopravvivenza.

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