La dea Alberti, che visse come una libellula

by Felice Sblendorio

Barbara Alberti è una profonda e continua malìa: si vorrebbe che non finisse mai una sua frase, un suo racconto, una delle sue tante illuminazioni taglienti, argute, sprezzanti. La vita, si sa, è tutta ritmo e musica: se la sua fosse una suite francese sarebbe una “courente”, una danza vivace e brillante. La sua voce, che dona ulteriore fascino a un volto oramai iconico, è un magma agitato da piccoli guizzi e termini aulici: un flusso continuo in cui la parola fine è un presagio da scongiurare.

Anche la scrittura, che esercita da quasi quarantacinque anni, è un temporale giocoso di immagini e caratteri irresistibili. Dopo aver recitato nelle vesti di una madre arcigna e aristocratica nell’ultimo film di Ferzan Ozpetek, “La dea fortuna”, ritorna ai libri con “Mio signore” (Marsilio, 176 pagine, 12 euro), una lettura del romanzo “La madre santa” di Leopold von Sacher Masoch per la collana“Passaparola”, ideata da Chiara Valerio per far rileggere alcuni scrittori del passato da autori contemporanei. bonculture ha intervistato Barbara Alberti.

Mio signore” rilegge “La madre santa” di Masoch. Cosa la affascina di questo romanzo?

Intanto l’assurdità dell’amore, che è sempre straordinario. Poi mi incuriosiva la perversione del masochismo, quindi del dolore raccontato da Masoch, e questa storia che unisce la fede e il bisogno d’amore, l’anarchia del divino come quotidiano e la comicità. Masoch racconta la storia di Sabadil, un contadino, che incontra Mardona, la capa di una setta di cui è il profeta: è un Dio in terra. Come tutte le persone che hanno potere è una cretina assoluta. Lui è semplicemente innamorato e accetta questo gioco. Mardona, come gli dei, è gelosa di tutti ma non ama nessuno. Quando Sabadil verrà affascinato dalla dolcissima Ninfodora, lei si vendicherà punendolo in maniera esemplare alla crocifissione. Lui, a quel punto, si abbandona al pegno d’amore e muore chiedendole un bacio.

Mardona e Sabadil, nella sua trasposizione, diventano Maria e Andrea.

Tutto si svolge in un paesino umbro degli anni ’60. Maria, una ragazza che fa la sguattera in un bar, è l’ultima del paese. Va in lavanderia e vede Andrea, un povero disgraziato ed ex tossico, un mascalzone senza amore. Lo guarda e dice: “Signore, vi ho riconosciuto, non respingetemi”. Proprio perché lui è l’ultimo degli ultimi, lei è convinta che sia l’ultima incarnazione di Cristo. E lui lo diventa. Maria crede che si sia rincarnato più volte, ma che nessuno l’abbia riconosciuto. Questa volta è venuto in incognito, e si manifesta attraverso Andrea, un ignoto e non abbiente grassone.

Andrea è un Dio perdente?

Sì, oggi si dice così: si divide il mondo fra vincenti e perdenti, una delle volgarità più nefaste del nostro tempo. Tutti i grandi artisti del mondo, oggi, lo sarebbero: il gobbo Leopardi, lo zoppo Byron, il monco Cervantes.

Che cosa nasconde l’urgenza di fede di questi personaggi?

Non nasconde nulla, è ciò che è: è un grande desiderio di trascendenza, che oggi manca. Io non sono credente, sono stata cattolica da piccola con un’educazione devastante: Dio è lì per punirci, mi dicevano. Nel mio paesino umbro era un peccato anche ridere. Una volta che mi sono liberata da questa impostazione, ho avuto la libertà di essere religiosa a modo mio. Non credo in Dio, ma ho un grande senso della trascendenza. Questi due poveretti fanno questo: trascendono insieme, anche nel ridicolo. È una fiaba mistica e un romanzo comico, nulla di più.

Non sia così modesta.

Io svilisco i miei libri. Fra me e i miei libri c’è un abisso: io sono molto più intelligente di loro.

I suoi personaggi sono votati alla pochezza. Siamo tutti destinati al ridicolo: nani e giganti, santi e diavoli?

Sì, basta che lo sappiamo. Io sono affezionatissima a San Francesco perché lui, che non è figlio di Dio ma figlio dell’uomo, capisce che l’unica salvezza per tutti noi è comprendere il proprio ridicolo. San Francesco non ha fatto altro che ridere di sé. Ci renderà liberi ridere di noi stessi perché alla fine comporta anche tanta tenerezza. Ridendo, ci perdoniamo.

Non credo che sia la consapevolezza più piena del nostro tempo.

Tutti si prendono orribilmente sul serio. C’è questa autoidolatria che è veramente stupida, triste, porta male. Se io non avessi riso di me, mi sarei buttata dalla finestra a otto anni.

Andrea è l’insieme di tante storture del maschio. Chi è assente in amore vince o perde?

Ma che ne so! Io non mi pongo questa domanda. Per me esiste il vivere le cose. Una volta che tu vivi le cose fino in fondo hai già vinto, anche se ti va malissimo. Il punto è non tirarsi indietro. Il punto è se ne esci spiritualmente vivo.

Lei parla di trascendenza, ma anche degli abissi degli uomini e delle donne. Le sue risposte alle tante lettere d’amore non si dimenticano facilmente. Del maschio, ad esempio, che cosa ha capito: quale animale si porta dentro?

Tutte le malattie di cui abbiamo parlato. L’insicurezza e la terribile, angosciosa e umiliante volontà di affermazione di sé a tutti i costi. L’erezione è davvero un’ingiustizia divina: il fatto che noi donne siamo libere dal problema dell’erezione, che sicuramente darà anche delle soddisfazioni, è una grande fortuna. Ora c’è questa favola per cui le donne invecchiano peggio, ma è una balla. Le donne invecchiano infinitamente meglio dei maschi perché non hanno questo problema. Gli uomini invecchiano male perché diventa la clessidra della loro vitalità: quando invecchi, cioè quando tutto decade, il maschio diventa pazzo. Le nonne alla peggio fanno le torte con i nipoti, ballano fra di loro, ma gli uomini no. Grazie a questa condizione di non essere legate alla sessualità, noi accettiamo le stagioni molto meglio di loro. Ho molta compassione e simpatia per i maschi.

Lei ha sempre dichiarato che l’uomo migliore è il maschio madre. In che senso?

È l’uomo che supera il complesso dell’erezione, è dolce con la donna e la sente parte di sé. Il maschio madre si compiace veramente della tua esistenza e non si misura con te. È il compagno di giochi, di vita, di dolore. Per fortuna, esistono.

Lei ne ha avuti?

Sì, ne ho avuti. Mio padre, il primo, e poi il mio ex marito con il quale vivo in amicizia da più di trent’anni, e al quale devo la mia scrittura. Il maschio-madre, poi, sa ridere, è spiritoso. Se non c’è il senso dell’umorismo, non si può essere buoni.

L’amore, invece, che cos’è? Per restare in tema: un mistero, una perversione?

L’amore è una gran fortuna perché è il terzo occhio che ti permette di trascendere: una volta che ami sei pronto a tutto. Quando ami tutto cambia. È una chiave di interpretazione del mondo. Poi, chiariamo, è una gran fortuna perché in giro c’è moltissimo amore truccato, tagliato come la droga. L’amore, nonostante questa mentalità psicologistica che vuole spiegare tutto, è inspiegabile. È una tegola meravigliosa e non possiede un perché. Straordinario.

L’amore nella sua vita ritorna sempre, come la scrittura. Perché scrive?

A cinque anni ho capito che sarebbe stata la mia grande svolta. È un modo per vivere molte vite, per uscire da me, dalla mia pochezza. Quando scrivi ti accorgi che sotto la penna le cose accadono. Mi ricordo che cominciavo a scrivere e mi dicevo: allora si può fare, si può uscire da qui.

Questo suo libro ritorna al tema del sacro, a lei molto caro. Nel 1978 pubblicava “Vangelo secondo Maria”. La sua era una Madonna che diceva “no” a un destino già scritto: una Maria femminista o un trattato sul libero arbitrio?

Lei rifiuta la maternità divina in nome del libero arbitrio: nessuno gliel’ha chiesto. Viene fatta dono di questo onore, ma lei ha altri progetti. È un piccolo trattato giocoso sul libero arbitrio, ma è anche un racconto su Maria di cui, nelle sacre scritture, non si sa niente. Lei è messa lì per obbedire e per soffrire: per essere madre, ma senza essere donna.

Lo scrisse dieci anni dopo il ‘68, dopo una serie di conquiste molto importanti per le donne. Nel 2020 qual è il bilancio?

Abbiamo ottenuto moltissimo. Prima dipendevamo dall’uomo anche per comprare un paio di calze o per andare al cinema. Dovevi chiedere tutto inizialmente come figlia e poi come moglie. Ora siamo più libere, ed è per questo che ci ammazzano. Queste rivoluzioni non sono passaggi che si fanno in una generazione, e neanche in due. La libertà conquistata è un passaggio durissimo per i maschi.

In questo libro ci sono tanti vizi. Il suo peggiore?

La stupidità.

Lei, stupida?

In senso lato, cioè la distrazione. È un gran peccato. La distrazione porta alla mancanza di memoria, di attenzione, di rispetto per sé. La detesto. Alla base di questo c’è un edonismo fottuto: sono vissuta proprio come una libellula.

Ha detto spesso che ha paura di invecchiare.

No, no, scusi: ho avuto paura, chiariamolo. Per me la vecchiaia è stata una malattia della gioventù. Fra i ventuno e i venticinque anni ti vengono delle rughine di espressione e il dramma è proprio quando la porcellana si incrina. Sono i primi segni il problema: quando non ti senti più immortale, intoccabile. Poi lo capisci e non te ne frega più nulla perché accetti il mutamento.

Davvero?

Sì, perché l’avventura è quella e va vissuta cosi. Poi c’è poca scelta, mi creda: o ti butti da quella stessa finestra a otto anni o vivi. Il punto è accettare che siamo nati per peggiorare. Siamo esseri deperibili.

La morte, il tema rimosso, che effetto le fa ora?

Alla morte non mi rassegnerò mai, perché è una gran porcata. L’idea di non essere più è inaccettabile. Mi consola solo l’arte, che è un prolungamento straordinario e ti permette di creare, creare, creare. Chiunque abbia una vocazione piena può ritenersi fortunato: è una bella consolazione rispetto alla morte.

Negli ultimi mesi ha recitato nel film di Ferzan Ozpetek, “La dea fortuna”. Com’è andata?

Non lo farò mai più, sono negata. L’attore ha una vocazione, crede di essere quel personaggio, lo gestisce: per me, invece, era come alle recite dalle suore. Mi sono divertita, ma ho capito che non ne sono capace. Se il mio personaggio è risultato credibile è per merito di Ferzan, che è un vero regista: riesce a far recitare anche i sassi e sa sempre quello che vuole.

Non si è fatta mancare neanche la partecipazione al Grande Fratello Vip. Una definizione dell’estro di Barbara Alberti è impossibile.

Spero di essere un clown, tutto qua!

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.