Da 17 anni Mariam Ohanyan racconta in Armenia lo sguardo delle donne (audaci e coraggiose) nei conflitti

by Paola Manno

In Armenia è in corso un conflitto che sembra non finire mai. Il clima di ostilità ha radici antichissime, e cioè nel genocidio del popolo armeno del 1915 a opera dell’impero ottomano che provocò oltre 1 milione e mezzo di vittime. 

A seguito della dissoluzione dell’URSS, gli equilibri geo-politici cambiarono e nel 1993 le truppe armene si riappropriarono della regione di Nagorno-Karabakh, un territorio del Caucaso meridionale che faceva parte dell’Azerbaijan ma con una popolazione quasi esclusivamente armena. Fu una lotta durissima portata avanti in nome del principio di autodeterminazione dei popoli e si concluse con la conquista di Shushi, ultima roccaforte azera.

La liberazione di Shushi fu fondamentale per gli armeni perché la città rappresentava la capitale culturale e storica del Paese e perché permetteva di puntare alla liberazione del Corridoio di Lachin. Il territorio restò comunque una zona calda e le trattative di pace non riescono tutt’oggi a risolvere in maniera definitiva una questione che è legata a ragioni ideologiche, religiose, etniche, politiche, economiche. Nelle ultime settimane sono riprese le ostilità che hanno portato l’esercito del Karabakh a scontrarsi contro l’esercito azero, la Turchia e i terroristi siriani, militarmente molto più forti e organizzati. Il 10 Novembre il Primo Ministro armeno ha firmato un accordo per il cessate il fuoco che il popolo ha considerato un vero e proprio tradimento. Putin, qualche giorno dopo, è apparso in tv dichiarando l’inevitabilità di quella scelta: ritirarsi dall’accordo, per il presidente russo, sarebbe un suicidio. 

Quell’accordo è un’immensa tragedia. Abbiamo perso Shushi, la nostra capitale culturale, abbiamo perso le nostre città, le nostre chiese saranno distrutte dagli azeri, ci sono centinaia di rifugiati” mi ha scritto qualche giorno fa, Mariam Ohanyan, regista e direttrice del “KIN” Women’s International Film Festival, un festival armeno dedicato al lavoro delle donne che fanno cinema.  “Quella firma significa la fine del popolo armeno in Karabakh.” 

Leggo un dolore antico nelle sue parole che mi turbano, che non mi lasciano dormire. Che cosa sta succedendo davvero? Le informazioni sono difficili da decifrare perché le coalizioni cambiano, gli interessi sono altissimi, perché tante cose non si vogliono raccontare, perché, infine, ci sono tante altre notizie che ci toccano e l’Armenia, in fondo, è così lontana.

Penso inoltre che per chi non ha vissuto sotto una dittatura, per chi non vive da generazioni con un peso sul cuore, sia difficile capire il senso di una guerra che dura da decenni. Le parole di Mariam mi spingono a interrogarmi su questa lotta che spazza via tutto il resto, i suoi film sono il racconto che cercavo. Lo sguardo di Mariam è quello di una donna attenta alle questioni politiche, ma anche, soprattutto, a quelle umane.

Armenian Women and Politics” racconta la storia dell’Armenia del XX secolo, con particolare attenzione alle posizioni che le donne hanno avuto nei conflitti: sono state audaci, coraggiose. 

Mi incanta il piccolo corto “I am doing pictures of Shushi” (Fotografando Shushi), con le immagini della città arroccata, gli antichi palazzi, i cieli azzurrissimi, la meravigliosa cattedrale di Gazanchetsots, una delle chiese armene più grandi del mondo, chiusa in epoca sovietica, ricostruita nel 1992.

Chiedo a Mariam da dove nasce l’idea di questo film, e lei spiega: “Mio nonno nacque a Shushi. Ho sognato per tutta la vita di poter visitare la città, che tra l’altro si trova sul tragitto della via della seta, una città fiorentissima prima della Rivoluzione d’Ottobre e dei pogrom. Durante l’occupazione azera era difficilissimo recarvisi in visita ma non appena c’è stata la possibilità ho deciso di partire per girare un film e raccontare Shushi attraverso gli occhi di una bambina. Ecco, è un film su una città. In seguito ho scritto un libro And I was called Hayastan (“E fui chiamata Armenia”) nel quale riporto la vita dei miei nonni, che furono tutti rifugiati da diverse città armene e che si incontrarono in Yerevan”. 

Più di tutti mi tocca lo struggente “We are the Color of our Earth” (Siamo il colore della nostra terra), che raccoglie le testimonianze di tre donne che hanno combattuto durante la prima guerra in Karabakh. Tutte hanno una storia dolorosa: il marito di Anahit è stato decapitato dagli azeri, il nonno di Karine H. era un combattente (“Già da bambina sapevo che un giorno avrei dovuto lottare per la nostra libertà”, racconta la donna) come il padre di Karine A. (“Papà mi diceva sempre che finché i turchi e gli armeni sarebbero stati vicini, la guerra non sarebbe mai finita“). 

C’è qualcosa di tremendo nella quotidianità di queste donne che sin da bambine hanno imparato le parole della guerra, ma pure, soprattutto, hanno cullato il sogno di vivere in un Paese libero. Mi pare che la guerra vissuta dalle donne sia una guerra diversa. Mi pare che i sacrifici delle donne siano altri: “Avrei potuto piantare alberi e fiori, avrei potuto continuare a studiare, avere dei bambini, ho sempre sognato di avere dei bambini, e invece sono stata sulle montagne” dice Karine A.

E insieme c’è il dolore dell’essere dimenticate: “Un tempo la gente si alzava in piedi e ti cedeva il posto sull’autobus, quando riconosceva che eri una combattente. Oggi nessuno si ricorda di quelli che hanno lottato.  Nonostante tutto sono fiera, fiera di averlo fatto. Sono la madre del mio Paese”.

C’è una grande fierezza nei racconti delle protagoniste, donne che sono state ferite e si sono rialzate, donne che hanno visto morire i compagni ma sono rimaste nei boschi, a lottare con loro. C’è una grande fierezza anche nelle parole della regista che tenacemente si batte, con i suoi strumenti, per dar voce a una storia che deve essere raccontata. 

Da 17 anni porta avanti un festival cinematografico: “I miei primi film trattavano questioni di genere ma non ho avuto la possibilità di proiettarli perché erano ritenuti poco interessanti – mi racconta –  così ho deciso di dar vita a un festival che potesse essere un luogo dove poter mostrare la creatività femminile. Durante la prima edizione abbiamo avuto pochissimi film girati da donne armene negli ultimi 10 anni. Poi però molte studentesse hanno iniziato a frequentare le scuole di cinema in Armenia e oggi sono diventate registe di successo, i cui film sono nel catalogo delle scorse edizioni. Oggi il cinema qui vive serie difficoltà. Abbiamo solo 2 fondi a supporto dei film, ma vengono richiesti innumerevoli documenti, i soldi sono pochi e si prediligono le coproduzioni. Spesso è più semplice girare un piccolo film con le proprie risorse piuttosto che aspettare i finanziamenti. Per me è stato così per anni, ma adesso è ancora più difficile”.

Penso a questo cinema della resistenza che è la forma più vicina alla vita, quella vera, e sento che la verità è che la politica vive nelle persone, che le idee vivono nelle persone, e che quello in cui crediamo è indissolubilmente legato al contesto in cui viviamo -a volte gli ideali seguono le strade della lotta armata, altre,  invece,  diventano musica, immagine, poesia.

“A causa di quello che stiamo vivendo, il festival è rimandato” mi dice Mariam “ma si farà”. 

Certo che si farà. Più forte di prima, si farà. 

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