Il femminicidio di Roberta Perillo e quelle braccia “inutili”, doloranti e violente degli uomini

by Antonella Soccio

“Avevo dolore alle mani. Mi fanno male le braccia. Ma l’ho uccisa? Io l’ho solo strangolata”. Sembra siano state queste le prime parole pronunciate ieri a San Severo dal 37enne Francesco D’Angelo dopo aver strangolato la fidanzata, Roberta Perillo, ex studentessa di Graphic Design all’Accademia di Foggia di 32 anni.

“Mi fanno male le mani, le braccia” riporta alla mente la famosa battuta “mi fanno male i capelli” di Deserto Rosso.

Il paragone appare sacrilego e fuori luogo, ma sotto sotto non lo è. I capelli simbolo della relazione con l’esterno, con il linguaggio e la comunicazione, per le donne, le mani, le braccia, la forza per gli uomini.

Per una volta, in questo ennesimo femminicidio, occorre spostare le immagini, dal corpo della vittima, esanime strangolato in bagno, nella vasca, al corpo del carnefice, che si percepisce senza senso e senza ruolo, col crollo del patriarcato. Con le braccia inutili, se non possono afferrare, tenere.  

Dobbiamo illuminare il corpo e le mani di un giovane uomo, con un disagio psichico, in cura farmacologica, in crisi di azione e di virilità. È in quelle mani e in quelle braccia doloranti, che hanno appena commesso un crimine vergognoso e brutale, che va ricercata l’educazione maschile al desiderio, all’amore, all’agguantare la vita con uno schema nuovo dopo secoli, che ancora manca.

Sotto i riflettori questa volta tutti insieme dobbiamo collocare il corpo maschile.

Perché il corpo femminile questa volta può solo dirci che Roberta in appena due mesi di relazione aveva capito che Francesco non era l’uomo per lei. Le sono bastati due mesi per accorgersi che aveva sbagliato bersaglio.

Quante donne invece attendono anni per sottovalutazione, paura di restare sole, voglia di omologazione ad un modello patriarcale che vuole ancora le donne necessariamente legate ad un uomo, mortificazione di se stesse, capovolgimento dell’amore in umiliazione? Non è il caso di Roberta. La sua unica imprudenza, comune a tante donne, troppe, è stata quella di voler fare tutto da sé. Si crede sempre, nella bolla sadomasochistica che avvolge sempre ognuna di noi, di poter risolvere da sole le cose.

Dopo soli due mesi di flirt, conoscenza, nascente amore, compagnia, ricerca dell’altro, si può già rischiare di morire in casa propria?

“Ti voglio lasciare”, è stata la sua consapevolezza di ieri. A cui è arrivata puntuale la minaccia di suicidio di un uomo debole. “Tu non mi aiuti a risolvere i nostri problemi”, le ha ribattuto.

“I segnali c’erano e c’erano tutti. Le amiche lo sapevano. Nessuno l’ha ascoltata. Vi chiedo di impegnarci tutte insieme contro la violenza che imperversa contro di noi, fino all’omicidio. Io sono qui a raccogliere le forze di contrasto di tutte voi. Procediamo insieme con le armi che conosciamo e che ci appartengono: la musica, l’arte, le parole, le testimonianze. Scuotiamo le coscienze, ma soprattutto incidiamo sulla cultura patriarcale e maschilista trasmessaci”, ha scritto la direttrice del Mat di San Severo Elena Antonacci.

Sì, concentriamoci sul corpo maschile, che gli uomini devono ridisegnare, per trovare nuovo senso. E concentriamoci sulla nostra capacità di creare legami.

Nella danza macabra della morte confusa per amore dobbiamo avere il coraggio di chiedere aiuto. Subito. Non si sarà meno libere né meno autonome, nel riconoscere la nostra fragilità.

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