La poesia femminista di Alicia Suskin Ostriker è didattica anti materna di “seni e cervici”. Per sanare ed esorcizzare il dolore

by Giammarco Di Biase

Un aspetto importante della poesia contemporanea americana (sarebbe utile forse questo per leggerla soli o ad alta voce o per assumere una certa postura di dizione) è che è prima di tutto esorcizzazione non solo del vivere quotidianamente il dolore, ma di tutta la struttura e i preconcetti lessicali di cui la poesia si è servita fin dagli albori.

Forse, tutt’ora studiandola o piuttosto leggendola conversando si crea quell’immediatezza che non ha bisogno di sponsor didascalici e testi al margine della pagina. Non è questa una lezione, e noi non preferiamo una poesia immediata piuttosto che una complessa, ma qui vi è un’unica grande consapevolezza, quella che la poesia ad oggi diventi sempre più globale e sintetica anche con violenza. Avendo questa piccola nozione, non presuntuosa ma di apertura, possiamo così conoscere una delle poetesse che ha caratterizzato più di tutte la malattia e le disfunzioni generazionali nel suo lessico poetico.

“Se la poesia non è radicata nella vita è una poesia noiosa”
“Si deve scrivere di quello che ci fa paura”

Alicia Suskin Ostriker è una poetessa e studiosa americana che scrive poesie femministe ebree. È stata definita “la poetessa più ferocemente americana” da Progressive. Inoltre, è stata una delle prime poetesse in America a scrivere e pubblicare poesie sull’argomento della maternità. Nasce a New York nel 1937 e ha studiato alla Brandeis University: dal 1965 insegna letteratura inglese e scrittura creativa a Rutgers University nel New Jersey. Ha pubblicato dieci raccolte poetiche e vinto numerosi premi letterari ed è nota anche per i suoi interessantissimi saggi critici di poesia e di studi biblici.

E’ proprio nel suo ruolo di insegnante che guarda alla vita dei suoi studenti, alla didattica “discorsiva” e fulminata dal linguaggio delle nuove generazioni che ritroviamo uno dei punti focali della sua poetica necessariamente contemporanea. Prima di raggiungere quel fattore asettico che la contraddistingue, misto a riservatezza e spregiudicatezza, dolcezza e rispetto per le altre donne, la sua poesia sembra divorare le situazioni, adattarsi al suo ruolo di insegnante prima che di poetessa per sigillare cronache, e così “fare cronaca” con la parola che diventa generazionale, che si trasformare nella parola degli altri, non sua, bensì dei ragazzi, della classe: factotum di temi e dinamiche. In questo modo il suo ruolo didattico si trasforma in un preventivo poetico.

Diciamo cose in questa classe. Tipo perché fa male.
Ma quello che dicono fuori dalla classe è diverso;
peggiore. […]
Mi sono iscritta ad un programma di riabilitazione dalla
droga
o Lo so che sono anoressica o Quel figlio di puttana
mi ha violentata per anni e adesso
sono così spaventata per la mia sorellina
ma lei si rifiuta di parlare con me. […]
Abuso, tentato suicidio, incesto,
pazzia, queste sono storie comuni,
questo è combattimento strada per strada
eppure questi ragazzini sono privilegiati.
Mangiano.
Hanno i loro letti, e vanno al college.

E’ qui che entra in gioco il ruolo di insegnante terapista. E’ qui che la poesia diventa cronaca sociale con quel senso di arretratezza linguistica, si adatta ad uno spirito conforme, diventa poesia sulla carta dopo l’ascolto, ma prima è un fulmine che si abbatte sull’intimità precaria di studenti privilegiati.

Mangiano.
Hanno i loro letti, e vanno al college.

Per la Ostriker, essenziali questi versi per leggerla, rileggerla e commentarla, la vita è un privilegio quando si possono soddisfare i bisogni primari fino a rompere con questa certezza per molti superflua e sorpassata, allungando la funzione dell’essere umano da esistenza di base a meccanismo di integrazione sociale e professionale ([…] e vanno al college]. L’animale che da organico diventa organismo di un sistema ancora più grande.

Il lavoro dell’insegnante è dare loro il permesso
di convogliare il dolore in linguaggio […] Devi
assolutamente, devi scriverlo. Cosa diavolo
pensi che abbia fatto Emily, e Walt, e Hart,
e Bill, e Sylvia. Scrivi per te stesso,
scrivi per quelli che sono ridotti al silenzio,
scrivi di ciò che ti fa aver paura di scrivere.

Si deve scrivere di quello che ci fa paura! Così la Ostriker parla ai suoi studenti e a noi. Un’affermazione come verbo da adottare in quel “continuo guardarsi allo specchio” della Clifton che abbiamo visto nell’articolo precedente, il verbo poetico di un femminismo carico di rotture tra madri e figlie, carico di rotture ancora e riconciliazioni con il proprio corpo ormai vistosi cambiare, perpetrato per anni, in rovina con il processo di invecchiamento.

E’ qui che urge fare poesia sul femmineo esposto al male, quella malattia ripugnante congegnata perfettamente con il passare degli anni, asportazione chirurgica della mammella: la mastectomia, momento essenziale della terapia di gran parte dei tumori maligni che colpiscono l’organo ghiandolare che nella giovinezza nutre i poppanti ed è segno di erotismo. Una poesia forte, del presente, che guarda alla medicina come riparazione di un corpo ormai recluso nella complessa carburazione dell’anzianità, tra ormoni fallibili, e menopausa.

Una poesia per tutte le wild women che ancora, ricorrente, <<non hanno paura di guardarsi allo specchio e raccontarsi>>.

Il disegno geometrico di un divisorio in ferro battuto
per separare
la zona d’accoglienza da quell’attesa
per suggerire, con delicatezza, che sterilità significa pace.

Rivoluzionaria è la poesia “La sala d’aspetto” di Alicia Ostriker.
Sterilità come pace, un approccio anti-materno, schietto, un pugno nello stomaco: la femminilità non è solo una cervice, una esuberanza interna o esterna, nello specifico non è una macchina fertile progettata perfettamente, la meccanica della donna è soprattutto altro, scalando la forte costruzione stereotipata del maschilismo contemporaneo.

La poetessa disossa le credenze, sempre eterne, la paura di abbandonare la sua femminilità in cui è rilegata socialmente, per dimostrarne un’altra, quella non della procreazione, ma della sua fallibilità.

Crea empatia questo lutto simultaneo con altre donne, come una lezione tenuta ai suoi studenti per creare un sistema organico comprensivo e di vicinanza.

Pensiamo ai nostri seni e alle nostre cervici.
Ci guardiamo l’un l’altra di sfuggita, riparando le
palpebre.
Mi chiedo quale potrebbe essere un modo pienamente
umano di esprimere le nostre paure,
queste paure del
tradimento dei nostri corpi.

Come facciamo affidamento a questa macchina di carne:
più cara degli amici, degli amanti, dei nostri stessi
pensieri.

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