L’ultima lezione di Liliana Segre

by Felice Sblendorio

Non hanno colpito solamente le parole dell’ultima testimonianza pubblica di Liliana Segre, ma anche la scelta del luogo che le ha accolte: Rondine, la cittadella della pace fondata nel 1997 dallo psicologo Franco Vaccari. Simbolicamente già un segno, una traccia. Perchè Rondine è una comunità di pace in cui l’utopia della convivenza fra nemici si è fatta realtà, si è fatta possibile pratica sociale. E proprio ai giovani di questa piccola frazione in provincia di Arezzo, che cominciò il suo lavoro di pace accogliendo due giovani russi e tre ceceni in un percorso di riconciliazione e fratellanza, la Senatrice a Vita ha voluto consegnare – in occasione dei suoi novant’anni – il suo ultimo intervento dedicato alle scuole.

Dopo trent’anni di incessante lavoro di testimonianza con i più giovani, Liliana Segre ha chiuso un ciclo importantissimo della sua vita. Un impegno cominciato nel 1990, dopo decenni di silenzio, che ha permesso alla donna e alla sopravvissuta di Auschwitz di rappresentare il male, di nominarlo, di renderlo personale e vivo come una ferita sanguinante. Il lavoro dei testimoni dell’Olocausto, quella tragedia che lo storico Dan Diner considerò come il «marchio dell’epoca, la sua fine ultima e ineludibile», è stato fondamentale.A seguito di una stagione di rimozione della memoria di quel “male sacro”, i sopravvissuti riuscirono a costruire una narrazione imprescindibile per comprendere il dramma dell’Olocausto. Con la personalizzazione di quei racconti, tanti testimoni come Liliana Segre ci hanno permesso di comprendere, sebbene in minima parte, quello che Geoffrey Hartman considerava «l’eccesso buio e spaventoso che al centro della Shoah resta oscuro».

Un buco nero, insomma; che Liliana Segre ha cercato di colmare con le parole e lo stile, con quella sua presenza che negli anni si è trasformata implicitamente in una lezione di vita e in un miracolo di umanità e tolleranza. La forza delle sue testimonianze, ma più in generale di tutte quelle dei sopravvissuti, è che non necessitano di commenti, di contesti di significato, di narrazioni ulteriori. Bastano le loro parole, la loro storia e i loro ricordi per entrare in quella complessiva vicenda di umanità negata a causa di uno dei più atroci inciampi della storia contemporanea. Anche questa volta, come tante altre, nonostante la Senatrice abbia toccato episodi e ricordi noti, è stata una prima volta. Perchè queste storie, come ha spiegato lo stesso Hartman, offrono sempre un tentativo diverso di recuperare e ricostruire una “comunità affettiva”, rinnovando così sentimenti di compassione.

Una comunità grande si è stretta ancora una volta attorno al racconto di quella bambina di otto anni sottratta all’infanzia e all’affetto. «Sono diventata sua nonna, ma anche io sono stata una bambina. Una bambina che a otto anni è stata espulsa dalla scuola. Chiesi subito a mio padre perchè perchè perchè perchè? Come un flash oggi ricordo il suo sguardo: perchè eravamo ebrei e le nuove leggi ci impedivano di fare molte cose. Quelle leggi razziste e fasciste ci trasformarono in bambini invisibili». Una bambina invisibile che è invecchiata subito, facendo diventare questa signora di novant’anni la nonna di sé stessa. «Desideravo proteggere mio padre perchè io ero importantissima per lui. Abbiamo trascorso quaranta giorni nel carcere di San Vittore. Ma a cosa pensava in quel tempo? Lui aveva quarantatré anni e io vedevo la tragedia di un padre sconfitto per non essere riuscito a portare in salvo il suo tesoro. Io lo dovevo consolare. Quando usciva dalla cella per gli interrogatori io diventavo vecchia, vecchissima: lui era diventato mio figlio. Io allora non ero più sua figlia, ma sua madre».

Ancora il male e l’orrore intatto nei ricordi di quella bambina mai cresciuta e invecchiata subito, rinchiusa ad Auschwitz e costretta ai lavori forzati. «In quei campi c’era una sfrontatezza che mi ricorda certi branchi di oggi. Le nostre guardie avevano una sicurezza indistruttibile di superiorità, erano convinti di appartenere a una razza superiore. Ma quale razza: quella umana? No, non erano umani. Erano dei mostri. Ecco perchè quando qualcuno mi chiede se ho perdonato rispondo sempre di no. No, non ho avuto quella forza. Io certe cose non sono mai riuscita a perdonarle».

La donna che col tempo è diventata Liliana Segre, simbolo umano di pace e frutto di un’esperienza che non si potrà mai cancellare e che lavorerà ancora incessantemente dentro di sé, non ha mai compreso e perdonato quel male, ma non l’ha nemmeno accolto, sradicando le radici della vendetta e dell’indifferenza. «Durante la marcia della morte abbiamo incontrato un cavallo morto. Con le unghie e con i denti abbiamo cominciato a mangiare la carne cruda del cavallo. Era orribile quella scena, e noi eravamo orribili. Eravamo morte dentro, ma volevamo vivere. In quella nostra marcia non abbiamo mai incontrato delle persone. Nessuno mai ci ha aperto una finestra. Ma dov’erano gli uomini? Dov’erano gli uomini con la lettera maiuscola che possono guardarsi allo specchio perchè possiedono una coscienza? Non c’era nessuno».

Per trent’anni Liliana Segre ha incessantemente osservato il suo dovere: quello di raccontare, facendosi testimone della sua vita e argine al suo stesso male subito. Da quella prima testimonianza pubblica all’Istituto delle Marcelline di Milano, maturata dopo l’assordante rumore del silenzio e della vergogna, il tempo ha cristallizzato le sue parole e il suo esempio. Un esempio riconosciuto anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, in uno dei momenti più importanti del suo mandato, nel 2018 l’ha nominata Senatrice a Vita.

Ma oggi in quella cittadella della pace, dove i nemici si sono riscoperti fratelli indebolendo le pretese crudeli del male, l’ultimo messaggio alle scuole di Liliana Segre ha rappresentato una testimonianza e un monito di raro valore. La testimonianza della storia, che deve resistere testardamente contro ogni negazione, e il monito a coltivare la memoria, a prenderne parte, a diffonderla, a farla propria rendendola viva. Fra più di un decennio, quando quasi tutti i testimoni di questa tragedia non ci saranno più, sarà nostro compito manutenere questa testimonianza ancora così incandescente. In gioco c’è la tenuta delle nostre democrazie di pace, l’unico frutto positivo nato dalle ceneri di quell’oscuro sterminio.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.