Gli abbracci della letteratura. Con queste ali, dobbiamo abbracciare il mondo

by Paola Manno

Come milioni di italiani, sono rinchiusa in casa da diversi giorni. Per noi che non facciamo parte del personale sanitario, per noi che siamo giovani e in salute, per noi che non siamo costretti ad uscire ogni giorno per andare a lavorare, questo è un periodo che -sebbene sarà ricordato come uno dei più terribili nelle pagine della Storia- abbiamo l’obbligo di vivere nella maniera più serena possibile. Siamo fortunati, mi ripeto continuamente. Abbiamo il dovere di stare in casa, ma anche il dovere, io credo, di utilizzare al meglio queste lunghe ore. Preoccupazioni a parte, ci sono delle cose che mi mancano moltissimo: l’aria aperta, la campagna, il pane fresco tutti i giorni, ma più di tutto mi manca la presenza dell’altro.

Mi mancano le voci, le persone. Mi manca il contatto fisico, gli abbracci. Così, ho pensato a tutti gli abbracci che ho vissuto leggendo, che ho sottolineato e inserito nella cartella del mio e-book, e questi sono i più belli, quelli che forse oggi possiamo rivivere insieme in attesa dei nostri che verranno.

Isabel Allende, ne “La casa degli spiriti”, uno dei più bei romanzi della letteratura del ‘900, descrive quello tra Alba e Clara, nipote e nonna: Clara era ancora giovane, ma a sua nipote sembrava molto vecchia, perché non aveva i denti. (…) Di tanto in tanto soffriva di attacchi d’asma. Allora chiamava sua nipote con un campanellino d’argento che portava sempre con sé e Alba arrivava di corsa, l’abbracciava e la curava con sussurri di conforto, dato che entrambe sapevano, per esperienza, che l’unica cosa a far passare l’asma è l’abbraccio protratto di un essere amato.

Ci sono abbracci che raccontano il bene più prezioso, che è la libertà individuale, e sono quelli che io chiamo “gli ossimori dell’amore” perché ci tengono stretti per lasciarci correre lontano. Naturalmente, Virginia Woolf ce ne dona uno meraviglioso, in queste parole del romanzo “La Crociera”, pubblicato nel 1915: Ti adoro, ma detesto il matrimonio, ne detesto la mediocrità, le sicurezze, i compromessi, e il pensiero di te che interferisci col mio lavoro, che mi ostacoli; che cosa mi rispondi?». (…) Che cosa gli avrebbe risposto? Che cosa provava? Lo amava, oppure non sentiva niente né per lui né per altri uomini, perché era, come aveva detto quel pomeriggio, libera come il vento o il mare? «Oh, tu sei libera!», esclamò, esultando al pensiero di lei, «e io ti lascerò libera. Saremo liberi insieme. Divideremo tutto. Non ci sarà felicità simile alla nostra. Nessuna vita sarà come la nostra.» Spalancò le braccia come per accogliere lei e tutto il mondo in un abbraccio.

Ci sono poi gli abbracci fraterni, quelli di cui sono piene le nostre infanzie, quelli che nascono da un impulso, da un bisogno fisico. Quella di Ofer e Adam, due fratellastri che non sanno di esserlo, è una storia potente, che David Grossman, racconta in “A un cerbiatto somiglia il mio amore”: Ofer aveva fatto un passo, un altro e un altro ancora. Camminava senza cadere. Forse la sua stabilità era dovuta proprio agli squittii di suo fratello, ai quali aveva in qualche modo legato la sua forza di volontà, come un aeroplanino in una tempesta alla ricerca ansiosa di un segnale inviato dalla torre di controllo. Arrivato a Adam gli si era infine lanciato tra le braccia ed entrambi erano ruzzolati sul tappeto, abbracciati, si erano rotolati strillando di gioia, ridendo. A un tratto Orah ebbe voglia di annotare quel piccolo ricordo, perché non le sfuggisse per altri vent’anni, di descrivere in poche parole la serietà di Ofer mentre trotterellava, l’emozione ridanciana di Adam, il suo sollievo enorme e, più di tutto, l’abbraccio affettuoso dei due. Era come se quello fosse stato il primo momento in cui si erano sentiti fratelli, in cui Ofer aveva scelto Adam, e lui, forse per la prima volta in vita sua, aveva creduto con tutto il cuore di essere il prescelto. Sorrise, stregata dalle capriole dei suoi figli sul tappeto, pensò a quanto fosse intelligente Ofer già allora, come sapeva concedersi a Adam, com’era stato attento a non restare intrappolato nel groviglio di segreti e silenzi in agguato tra le braccia sue e di Ilan.”

Poi ci sono gli abbracci atroci, gli ultimi abbracci, quelli che fanno male. Ho pensato alle parole preziose di Alessandro Leogrande che, accidenti, ci manca da morire oggi più che mai. Ne “La frontiera” racconta con lucida precisione e il cuore aperto la vita degli ultimi:  Alcuni riescono a mantenersi a galla raggiungendo le assi di legno che si sono staccate, ma anche in quel caso ogni pezzo di barcone diventa una zattera insufficiente a tenere tutti quelli che provano ad aggrapparsi. I più stanchi si lasciano risucchiare dal Mediterraneo. Alcuni provano ad allontanarsi al largo, provano a raggiungere le luci che vedono in lontananza. Molti non sanno nuotare, e muoiono per questo, altri muoiono perché stremati dalla fame: da mesi mangiano solo un tozzo di pane al mattino e uno alla sera, un po’ di minestra e dell’acqua. Le donne e i bambini che riempiono la stiva muoiono per primi. Li ritroveranno abbracciati, con le mani delle donne messe a coppa sulla bocca dei bambini per cercare di farli respirare qualche secondo in più, per impedire all’acqua di entrare nei polmoni.

Ci sono gli abbracci che non abbiamo dato, che abbiamo desiderato con l’anima e che sono rimasti lì, in attesa di un giorno migliore, che come quello che André Aciman descrive in “Chiamami col tuo nome”   Mi ricordai che sul balcone stavo quasi per abbracciarlo, ma mi ero fermato in tempo, pensando che, dopo tanta freddezza, un abbraccio sarebbe stato fuori luogo. Prima di bussare, ricordavo di avere pensato: Abbracciarlo. Non abbracciarlo. Abbracciarlo. Adesso ero in camera sua. Oliver era seduto a gambe incrociate. Sembrava più minuto, più giovane. Io me ne stavo ai piedi del letto, imbarazzato, non sapevo cosa fare con le mani. Sono ridicolo, pensai. Tutto questo è ridicolo, così come il potenziale abbraccio che avevo soppresso e che continuavo a sperare non avesse notato.  (…) Ma prima che riuscissi a mettere una distanza tra noi, mi sentii come investito dalla cascata d’acqua sulla vetrina del fioraio, che lavò via tutta la mia timidezza e le mie inibizioni. Nervoso o no, non avevo più intenzione di sottoporre a controllo incrociato ogni mio impulso. Se sono stupido, va bene, sono stupido. Se gli tocco il ginocchio, gli tocco il ginocchio. Se voglio abbracciarlo, lo abbraccio. Mi serviva un sostegno, così scivolai accanto a lui e appoggiai la schiena alla testiera. Guardai il letto. Adesso mi era tutto chiaro. Avevo passato nottate intere a sognare questo momento. Ed era arrivato. 

Ci sono poi gli abbracci di tutti i giorni, quelli in cui le braccia dell’altro sono la tua casa. Susan Abulhawa, in “Nel blu tra il cielo e il mare”, un meraviglioso romanzo sulla drammatica situazione della Palestina, racconta l’amore coniugale in un intenso abbraccio: dopo anni di matrimonio, un solo figlio e troppi aborti, Alwan sapeva che suo marito la riteneva responsabile dell’umiliazione che provava. “Cosa posso fare?” disse. Lui non la guardò e continuò a soffiare sbuffi di fumo. Alwan si sedette ai suoi piedi per un po’ e trovò il coraggio di continuare: “Mi dispiace, Abdel Qader. Picchiami se vuoi. Ti capisco. Ma ti prego di non abbandonarmi”. Commosso dalle sue parole, lui si chinò verso la moglie. Le prese il viso tra le mani e l’avvicinò a sé. Le baciò la fronte, sulle prime con esitazione, poi più forte, stringendola contro il proprio corpo. “Non è colpa tua, Alwan. Con il volere e la misericordia di Dio, supereremo tutto questo.” Non disse altro. Strinse sua moglie e quella notte dormirono in un abbraccio che sorresse il mondo.

Ci sono gli abbracci che vivono in un ricordo, e quel ricordo ci illumina nei momenti più bui. Sempre la Abulhawa, ma in “Ogni mattina a Jenin”, scrive : Adesso, la mia vita prima della guerra mi ritorna in ricordi avvolti dalle braccia di papà e profumati dal tabacco della sua pipa. Avevamo poche cose e pochissime necessità. Non ho mai visto un parco giochi e non ho mai nuotato nel mare, ma la mia infanzia è stata magica, sotto l’incanto della poesia e dell’alba. Non ho più trovato un luogo sicuro come l’abbraccio di mio padre, quando nascondevo la testa nella cavità del suo collo e delle sue spalle robuste.

Infine, ci sono le braccia aperte al mondo, che si stringono nel desiderio di giustizia. Chiudo con Gioconda Belli, una donna che davvero ha fatto della sua vita un atto d’amore. Ne “La donna abitata” scrive: Il mondo sarebbe cambiato. Doveva cambiare, pensò, evocando i compagni senza volto che lottavano nella selva, e sperando che questi pensieri tristi svanissero. Ma che cosa erano questi brutti momenti di fronte all’eroismo quotidiano degli altri?(…)  La notte prima, Yarince e io parlammo a lungo, come gli anziani accanto al fuoco, ricordando i tempi della nostra infanzia, gli anni dell’amore e della guerra, le nubi tempestose. Esaminammo le nostre vite, un disegno tenue di parole legate tra loro. Forse saremo morti presto, aveva detto Yarince. Voleva ricordare il passato visto che non avevamo certezza del futuro. Lo cullai tra le mie braccia delicate. «Con queste ali, potresti abbracciare il mondo» mi disse.

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