Kramer contro Kramer e la maternità nuova di chi rivendica libertà

by Paola Manno

Kramer contro Kramer (Kramer vs. Kramer), film diretto nel 1979 da Robert Benton, è una di quelle opere cinematografiche che fanno ancora parlare di sé. Vincitore di 5 premi Oscar (Miglior film, Premio alla regia, Miglior attore protagonista, Miglior attrice non protagonista e Migliore sceneggiatura non originale) e di altri numerosi riconoscimenti, fra i quali 4 Golden Globe e 3 David di Donatello, divenne in poche settimane dall’uscita il film con il maggior incasso in sala negli Stati Uniti di quell’anno. Ben presto il successo valicò i confini e divenne planetario.

È facile capire perché gli spettatori di tutto il mondo abbiano amato un film come questo, che affronta con realismo un tema difficile come quello della separazione. Anche oggi, dopo più di 40 anni, è semplice riconoscersi in due coniugi che affrontano una crisi perché i meccanismi del dolore sono sempre simili. Vengono fuori sin dalle prime scene del film, attraverso la descrizione degli universi lontanissimi che sono diventati i due membri della coppia. Così conosciamo Joanna, in silenziosa riflessione ai piedi del letto di un bambino: un primissimo piano sui suoi occhi stanchi è più efficace di mille dialoghi. Il confronto lo mostra un montaggio alternato su immagini di un giovane uomo che poggia i piedi sulla scrivania di un ufficio, visibilmente soddisfatto per un successo lavorativo.

È Ted che nonostante l’ora tarda chiacchiera tranquillamente con un collega mentre sua moglie è cosciente di non poterne più. Il dolore della donna è infatti di un’intensità struggente: prepara una valigia e quando Ted arriva gli comunica che ha capito molte cose, che non ce la fa più, che andrà via da casa. L’uomo non ascolta, non vuole sentire, così lei gli dice esplicitamente che ha sposato la donna sbagliata, lasciando intendere che il problema sia lei, e aggiunge una frase che va contro tutte le forme di retorica sulla maternità: “Non ho pazienza. Non sono giusta per lui (intendendo il figlio).” Lo dice con una consapevolezza nuova, con profonda convinzione.

“Non ho pazienza”: così racconta con tre parole il pensiero indicibile di molte madri, le ansie e le contraddizioni di un sentimento che ha mille sfumature. E poi Joanna fa una cosa che è simbolica e racconta un desiderio ignominioso: si riprende i 2.000 dollari che aveva in banca quando si sono sposati. Ecco, è di nuovo la ragazza che aveva dei progetti che non è riuscita a realizzare. Vuole ripartire dai lì, dalla piccola, ridicola somma che era sua quando era una donna libera. Bastano i primi 10 minuti del film a mettere in scena, in tutta la sua crudezza, l’incomunicabilità di due persone che vivono un rapporto che non funziona più. Joanna abbandona la sua casa nonostante Ted sia convinto che tornerà, perché un cambiamento così radicale è inconcepibile per lui. La signora Kramer esce così di scena lasciando un vuoto da riempire (insieme alla maggior parte della narrazione filmica) al marito. É infatti Ted il grande protagonista della storia, un immenso Dustin Hoffman la cui interpretazione è leggendaria. Lo seguiamo nei lunghi giorni e mesi che seguono la separazione e che sconvolgeranno la sua vita. Il punto di vista è nuovo, prettamente maschile, e permise all’epoca una riflessione necessaria sui ruoli di “padre” e “madre”; fu tuttavia anche l’aspetto più criticato del film.

L’uomo, che all’inizio appare cinico, disattento, uno che non sa nemmeno cucinare un uovo al suo bambino, cresce accanto al figlio e scopre una paternità nuova.

La crescita è raccontata attraverso scelte registiche di grande impatto emotivo, come il contrasto tra le cene in silenzio della prima parte del film e la lunga, interminabile corsa di Ted verso l’ospedale, con Billy sanguinante in braccio, appena caduto da una giostra, nella seconda. Una corsa che diventa simbolica e in cui c’è tutto, il terrore, l’amore, il senso di colpa, la fragilità, l’impotenza, e il cuore dello spettatore corre affianco a loro, fa suo ogni sentimento.

Essere padre è molte cose, ma è soprattutto qualcosa che ha a che fare con la pazienza. Ted lo afferma con forza davanti a un giudice al ritorno della moglie che chiede la custodia di Billy, andando oltre: “Mia moglie mi diceva che non c’è nulla di sbagliato se una donna ha le stesse ambizioni di un uomo. Ma per lo stesso principio vorrei sapere chi ha detto che una donna è un genitore migliore in virtù del suo sesso”. Molte verità si intrecciano nel famoso processo che riempie la seconda parte del film, le ragioni di Ted e quelle di Joanna che, davanti agli avvocati che criticano la sua fuga, pronuncia un’altra battuta-chiave “Non credo che dovrei essere punita per questo. Per essermi sentita viva”. La giovane Meryl Streep, sebbene attrice non protagonista, tiene testa al grande Hoffman che quasi sempre domina le scene ma che non riesce in nessun modo a relegarla ad un piccolo ruolo. Grazie ad un’interpretazione indimenticabile, la signora Kramer non sparisce sotto il peso di suo marito, anzi, sacrificando una parte importante di sé, tira fuori una maternità nuova.


La pellicola è dunque un intrecciarsi di dolore e crescita (in fondo, quasi sempre il dolore e la maturità camminano insieme) e quello che resta dopo la visione ha certamente un retrogusto amaro. Allo stesso tempo c’è qualcosa di nuovo, qualcosa che ha a che fare con il processo di liberazione di entrambi i personaggi, qualcosa che è lontano dalla condanna della donna che rivendica la sua libertà ed è più vicino alla bellezza del percorso di un uomo che impara ad essere padre. Ecco, è proprio questo che continua ad emozionare: il racconto del lungo, difficile percorso che accompagna ogni giorno la genitorialità.

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