L’Agnese va a morire

by Paola Manno

Sono molti -per fortuna- i romanzi italiani che raccontano la Resistenza. Alcuni tra gli autori si studiano a scuola: Fenoglio, Pavese, Calvino, Cassola. Tra loro c’è anche Renata Viganò, partigiana, scrittrice, che ha scritto, io credo, una tra le storie più interessanti: L’Agnese va a morire, pubblicato nel 1949, Premio Viareggio, tradotto in 13 Paesi. Diverso innanzitutto perché la protagonista è una donna, tra l’altro anziana, una delle poche voci femminili che pure hanno fatto la Storia. Interessante perché non si tratta di un’opera celebrativa; a me sembra, piuttosto, una delle opere più antiretoriche sulla Resistenza.

L’autrice riassume quegli anni con parole efficaci: “La forza della resistenza era questa: essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche. Un fuoco senza fiamma né fumo: un fuoco senza segno. I tedeschi e i fascisti ci mettevano i piedi sopra, se ne accorgevano quando si bruciavano”. È, quella narrata nel romanzo, la resistenza delle persone, quella degli ultimi, di quelli che hanno capito da che parte stare senza aver studiato, senza lunghe conversazioni filosofiche o indottrinamenti di partito.

“Che cos’è l’Agnese?” -si chiede Sebastiano Vassalli nell’introduzione del romanzo dell’edizione del 1974 “Ebbene, che a questa domanda ognuno cerchi di rispondere come può e come vuole”. Agnese è stata, un giorno, alta e bella, ma adesso è un’anziana lavandaia, una donna semplice, con grossi polpacci e braccia forti, sposata con Palita che è invece istruito, politicamente impegnato. Agnese conosce la fatica, ma anche, almeno così sembra all’inizio, la serenità di una vita senza pretese. Non è una donna cattiva e non è una donna buona: è una che ha sempre lavorato come un ciuccio da quando è nata, Agnese non ha sogni, non ha passioni e non ha mai avuto il tempo di farsi troppe domande: è quanto di più lontano da un eroe letterario.

Agnese è vecchia, è ormai una signora fisicamente brutta: passavano i ragazzi e le dicevano “buonanotte carro armato!”.

Eppure la storia di Agnese, che racconta i 19 mesi che la condurranno alla morte (il titolo lo dice chiaro), è una storia piena di poesia e verità. Si tratta di una strana, fragile presa di coscienza: lei, in fondo, ha sempre conosciuto le ingiustizie della vita, è sempre stata consapevole di non avere diritti, ha sempre abbassato lo sguardo davanti ai padroni. Eppure arriva un momento in cui questa verità che ha sempre conosciuto affiora nelle sue mani callose e diventa una verità intollerabile.

Nè buona né cattiva, Agnese fa quello che deve fare. Come se fosse la cosa più naturale, scontata del mondo. Così, a seguito della morte del marito per mano fascista, si ritrova a trasportare esplosivo per far esplodere ponti, e poi, dopo aver ammazzato un tedesco, a vivere in clandestinità. Agnese è una donna pratica. Alla morte del marito utilizza i soldi per la messa di suffragio per acquistare della lana per fare i calzettoni per i partigiani. Soffre, l’Agnese, a volte piange – come sono sempre tragiche le lacrime degli anziani! – ma subito tira su col naso, si asciuga gli occhi e si rimette a lavorare. È una donna che ha perso tutto, che è rimasta senza una casa né un marito ma che ha ancora la forza di credere in un futuro migliore, non per lei, ma per i compagni partigiani, per quei ragazzi così giovani. Ed eccola a cucinare per i compagni, a trasportare beni di prima necessità da una parte all’altre delle campagne romagnole, instancabile sotto la pioggia o il sole cocente, a portare messaggi, a ubbidire ciecamente al suo comandante, a consolare una ragazza giovane che si strugge per il suo amore ammazzato dall’odio fascista.

Una donna semplice, con dei pensieri semplici: “Quando uno muore non dovrebbe restare nulla di lui, una nuvola, il respiro e il posto vuoto dove è caduto. Un cadavere è ingombrante”, quanto di più vicino alla praticità contadina così piena di saggezza popolare, e allo stesso tempo lontanissima da quel pensiero “più facile, più utile” di tutti gli altri che sottostettero alla volontà degli oppressori, di coloro che tradirono i paesani, che li vendettero al nemico o semplicemente restarono fermi a subire, per non morire di violenza.

Una donna coraggiosa e sudata su una bicicletta, che non sa di esserlo (è proprio in questa inconsapevolezza che risiede la sua bellezza) che spinge forte i piedi sui pedali, nelle ciabatte consumate. Durante la lettura, ho pensato spesso ai grossi piedi di Agnese che pare reggano la sua figura antieroica ma allo stesso tempo così piena di audacia, e non mi ha stupito ritrovare quell’immagine nell’articolo “La storia di Agnese non è una fantasia”, scritto dall’autrice e pubblicato su L’Unità il 17 novembre 1949.

Così Renata Viganò descrive la vera Agnese, quella che ispirò la scrittura: La prima volta che vidi l’Agnese vivevo un brutto momento. Mio marito l’avevano preso le SS. L’Agnese mi arrivò vicino con i suoi brutti piedi scalzi nelle ciabatte. Vidi per primi quei brutti piedi, ero tanto piena di odio e di pena che mi fecero schifo. Poi intesi la sua voce che diceva -è lei la Contessa? E allora tutto cambiò colore: mai il mio nome di battaglia mi aveva dato tanta gioia a sentirlo pronunciare.

Renata Viganò

Sono i lunghi mesi di Resistenza che Renata Viganò, come l’Agnese, visse, quelli che vengono narrati nel romanzo che lei stessa definì “antiretorico, antidrammatico, casalingo e domestico”. Agnese era una donna che visse, che scelse da che parte stare e che morì anche lei per mano fascista, il cui corpo non venne mai ritrovato. “Dovemmo fare il funerale a vuoto, un funerale su un nome. Lei, che risultava sempre presente, che non mancava a nessuna chiamata, quella volta non c’era”.

Mi capita spesso di pensare alla vera Agnese, a quella che ha scritto una delle più belle pagine di storia italiana insieme a tante donne, una di quelle che abbiamo il dovere di ricordare.

E poi penso anche all’Agnese del romanzo, a colei che è arrivata a me attraverso le pagine di un libro che mi da coraggio, che mi ricorda che ognuno può fare la Storia, con le proprie scelte di ogni giorno.

C’è una breve scena che racconta ancora delle cose su questo personaggio semplice ma intenso, un momento visivamente potente che mi restituisce l’umanità limpida di Agnese. Dopo il saccheggio di una casa di nobili, i partigiani tornano all’accampamento con un sacco pieno di roba, e portano alla donna, che possiede un solo, vecchio vestito, una vestaglia di seta lucida, lilla, con grossi fiori stampati. E cosa fa l’Agnese di fronte a questo dono, in mezzo a un gruppo di giovani, tutti uomini, che di certo avrebbero riso del suo enorme corpo di anziana avvolto da un vestito tanto elegante ed estroso? Quello che lei fa è indossare quella vestaglia tra le risate affettuose dei suoi compagni, e ridere insieme a loro, perché ancora una volta si fa quello che si deve fare. Ecco, rispondo così alla domanda di Sebastiano Vassalli: è questa la mia Agnese, in piedi a testa alta in una sottoveste lilla perduta in una campagna desolata sotto le bombe dei tedeschi, con un meraviglioso sorriso che le illumina il volto che non ha paura di apparire ridicolo, proprio perché l’Agnese è la donna libera che probabilmente non sa di essere.

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