Uomini e topi di John Steinbeck: la storia dell’incontro tra molte solitudini e il sogno di una vita migliore in un’America pensosa

by Paola Manno

È come stare seduti ai piedi della collina, accanto a un fiume, e sentirli parlare. La scrittura è così viva che hai la sensazione di essere tra loro, di toccare la miseria, di sentirne l’odore, persino. Potrebbero essere due lavoratori stagionali qualsiasi, in qualunque parte del mondo. Potrebbero avere la pelle bianca o nera, essere nati negli anni ’30 in America o 20 anni fa su una costa africana, non importa. Le parole e i pensieri sono senza dubbio gli stessi.

Il romanzo, pubblicato nel 1937, si intitola Uomini e topi e l’autore è uno dei più importanti scrittori americani, John Steinbeck. In quegli anni lavorava su un reportage sulle condizioni di vita delle immigrati dall’Oklahoma alla California e quello che ne venne fuori, insieme ad alcuni articoli, fu questo breve romanzo che avrebbe venduto milioni di copie in tutto il mondo. Una piccola storia che racconta un paese ingiusto, lontanissimo dalla letteratura dei sogni e dei self-made-men.

In Italia venne tradotto per Bompiani da Cesare Pavese. Non fatico a capire l’amore del traduttore per un testo su “un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, greve di tutto il passato del mondo e insieme giovane, innocente”. Non fatico a ritrovarne il fascino, la necessità di essere diffusa.

I protagonisti sono due poveri cristi in cerca di una nuova occupazione: George, piccolo e lesto, scuro in volto, con gli occhi acuti e irrequieti, e lineamenti affilati e marcati. L’altro, un uomo enorme, dal volto senza forma, con occhi grandi e chiari e ampie spalle ricurve. Si ritrovano all’ingresso di una fattoria, le raccomandazioni sono sempre le stesse (“Non devi dire una parola. E se ti capita di finire nei guai come hai sempre fatto, vieni qui e ti nascondi nel bosco”) perché Lennie è una sorta di gigante con il cervello di un bambino, uno di quei derelitti che la morale vorrebbe chiusi in un istituto e che invece vive accanto a George, che si prende cura di lui. Il lavoro è pesante, gli uomini dormono tutti insieme, su dei giacigli di paglia. Di sera giocano a carte. Il figlio del padrone, Curley, è un piantagrane.

È la storia dell’incontro tra molte solitudini: quelle di George e di Lennie, quella dell’addetto alle pulizie Candy che ha paura di morire ammazzato come il proprio cane, perché ormai vecchio e inutile, quella di Crooks, lo stalliere negro, che in una sola battuta descrive la tragedia degli esclusi -“I libri non servono a niente. Un uomo ha bisogno…di qualcuno vicino – gemette – Un uomo diventa pazzo se non ha nessuno. Non importa chi è, né da quanto è con lui- te lo dico io. Te lo dico io che a rimanere troppo soli si finisce con l’impazzire!”.

E infine l’unico personaggio femminile, “la moglie di Curley”, che non ha neanche un nome. La donna è un po’ un’Eva tentatrice, una che non sa stare lontana dai ragazzi, ma è anche quella che regge il peso di un’infelicità senza speranze, perché è l’unica che non ha un’alternativa. È la donna che circola nei tristi dormitori in cerca di compagnia, quella che sarà la causa dell’ennesima sconfitta, che pagherà con la sua stessa vita.

Eppure, nonostante tutto, ognuno conserva il sogno di un vita migliore. Che cosa vogliono queste persone? Un pezzo di terra, una casetta con il caminetto acceso, una gabbia coi conigli. C’è un senso di dignità forte che li spinge a lavorare, a mettere da parte quei pochi spiccioli guadagnati, a mettersi insieme per sentirsi più forti. Fino alle ultime pagine del romanzo, fino alla fine della stessa esistenza, i protagonisti non smettono di inseguire quel sogno, ripetendo come una cantilena “ci sarà anche la gabbia dei conigli”. C’è il senso dell’amicizia, che è un sentimento potentissimo che unisce George e Lennie più del bisogno dell’uno dell’altro e che porterà George a un gesto estremo, il più difficile di tutti.  È un romanzo in cui non traspare  un giudizio  (all’inizio il titolo doveva essere “Something that happened”, qualcosa che è semplicemente accaduto) ma che diventa la metafora di due uomini che vorrebbero cambiare attraverso il lavoro, ma che invece restano schiacciati dalla storia, dal destino degli ultimi. È, infine, un’opera che si interroga sulla natura dell’innocenza e su quella della colpa.

Quasi tutto passa attraverso i dialoghi, e dunque le parole dei protagonisti, i pensieri individuali, ma pure attraversi gesti grotteschi che si ripetono (il gigante che accarezza i topi fino a strangolarli), oggetti che diventano simboli. È qui che risiede la grandezza del narratore – vincitore del premio Nobel per la Letteratura nel 1962 –  nel testo che con immediatezza, rigore e poesia ci mette davanti agli occhi persone i cui cuori pulsano ancora, le cui speranze accompagnano, da sempre, la storia dell’umanità.

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