“Quella di Luis Sepúlveda è la lingua di chi dà voce a chi non ha voce”. Intervista ad Ilide Carmignani, traduttrice dello scrittore cileno

by Anna Maria Giannone

La morte di Luis Sepúlveda per complicanze legate al coronavirus, il 16 aprile scorso, ha lasciato la comunità mondiale sgomenta. Beffardo il destino che ha reso vulnerabile proprio lui, scrittore combattente la cui intensa avventura politica e letteraria affonda le radici nel Cile di Salvador Allende. Una vita di grandi battaglie, vissute in prima persona, attraversando Paraguay, Ecuador, Argentina, Nicaragua, fino all’arrivo in Spagna nel 1996, dove ha vissuto fino alla morte.

Tutta la scrittura di Sepúlveda è permeata di passione civile, dall’esordio con Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, dedicato a Chico Mendes, fino all’ultimo lavoro La fine della storia, viaggio nella storia del Novecento, passando per poesie, favole, scritti teatrali. Un susseguirsi di grandissimi successi. Fra tutti l’inno alla diversità de La Gabbianella e il gatto, con oltre 5 milioni di copie vendute e una traduzione in 55 lingue.

In questo profondo legame di Sepúlveda con il mondo, un posto speciale aveva l’Italia. Con i lettori italiani Lucho – come lo chiamavano i suoi amici –  aveva una relazione fortissima, tanto che i suoi libri sono spesso usciti in italiano, ancor prima che in lingua originale. Un amore che lo portava a passare molto tempo nel nostro paese, anche in virtù di una collaborazione strettissima con la sua casa editrice, Guanda, e con la sua storica voce italiana, Ilide Carmignani.

Fra le più riconosciute e stimate traduttrici letterarie Italiane, interprete della scrittura di grandi autori latinoamericani, fra cui Bolaño, Borges, Cortázar, la Carmignani ha tradotto in Italia (quasi) tutti i libri di Sepúlveda, collaborando con lo scrittore cileno ininterrottamente per 28 anni. Un rapporto di fiducia e stima assoluta il loro, oltre che di amicizia e profonda conoscenza.

Noi di Bonculture l’abbiamo intervistata, per avvinarci meglio al mondo di Sepúlveda, che ancora tanto ha da raccontarci.

La legava a Sepúlveda una collaborazione quasi trentennale. Ha tradotto in Italia quasi tutte le sue pubblicazioni. Che rapporto avevate? Ricorda il vostro primo incontro?

Era un rapporto di grande collaborazione. Quando uscì in Italia il suo secondo libro, Il mondo alla fine del mondo, sulla caccia alle balene nella Terra del Fuoco, Lucho mi fece invitare a Milano. Era così strana quella convocazione che mi spaventai e pensai a un esame. Invece voleva solo ringraziarmi per avergli prestato la mia voce: disse che ero la sua compañera de camino e che da allora in poi avremmo proseguito insieme. E così è stato. Non solo ho tradotto tutti i suoi libri, le poesie, le sceneggiature, gli articoli di giornale, ma l’ho accompagnato nei suoi tour di presentazione, mi ha invitato a casa sua, è venuto da me a Lucca.  A ottobre abbiamo festeggiato a Milano il suo settantesimo compleanno. Adesso mi si stringe il cuore pensando a Carmen Yáñez, sua moglie, poeta, che è rimasta sola.

Una lingua semplice, schietta quella di Sepúlveda. Come la descriverebbe?

È la lingua di chi dà voce a chi non ha voce, ai deboli, agli ultimi, quindi una lingua senza orpelli letterari, espressiva, coinvolgente, che attinge a tutte le tecniche della narrazione orale. Una lingua asciutta, diretta, da cui traspare una grande esperienza giornalistica, e molto visiva, con la trama che procede per immagini, non a caso Sepúlveda aveva una formazione da drammaturgo. Una lingua di una semplicità difficilissima.

I suoi scritti spaziavano fra generi molto diversi. Quale il filo conduttore di tutta la sua produzione letteraria?

Un filo conduttore era la narratività, il piacere di raccontare storie, al di fuori di qualsiasi incasellamento. L’altro filo conduttore era la volontà di testimoniare. «Scrivo per amore della parola e per l’ossessione di dare un nome alle cose a partire dalla responsabilità di un’etica personale che mi pare necessario condividere, ma anche dal versante ludico dell’esistenza. (…) Scrivo dei miei, degli abitanti emarginati dei miei mondi emarginati, delle mie utopie schernite, dei miei gloriosi perdenti che sconfitti in mille battaglie continuano a preparare i prossimi combattimenti e le successive sconfitte. Scrivo perché amo la mia lingua e sento che la scrittura è lo spazio in cui ho modo di osservarne e comprenderne la crescita e gli sviluppi».

Aveva un rapporto molto speciale con i suoi lettori italiani. Cosa lo legava al nostro paese?

Sentiva l’amore dei lettori italiani e lo contraccambiava. E poi aveva un rapporto speciale con Luigi Brioschi, l‘editore di Guanda, tanto che i suoi libri uscivano prima in italiano che in spagnolo. Lucho mi mandava via mail il file ed era molto emozionante per me aprirlo e leggere quelle pagine ancora assolutamente inedite.

La traduzione deve “non perdere e non aggiungere” come è entrata nel mondo di Sepúlveda per renderlo al meglio?

Be’, ero davvero una compañera de camino, ho potuto chiedere lumi anche sul minimo dubbio, discutere ogni sfumatura. Tante storie che sono finite nei libri di Sepúlveda le ho ascoltate prima dalle sue labbra davanti a un bicchiere di vino. Ed era una meraviglia.

Su cosa stava lavorando prima della malattia? Avevate avuto modo di parlarne?

Stava lavorando su Agua mala, un giallo ecologico ambientato nel Sud del mondo. C’erano un allevamento di salmoni inquinato, una ragazza morta e Juan Belmonte.

Lei è traduttrice in Italia anche di Roberto Bolaño, un mondo letterario molto distante da quello di Sepulveda…

Sì, noi traduttori, come dice Renata Colorni, siamo dei camaleonti libertini che amano arrampicarsi sulle spalle dei giganti. Di Bolaño ho tradotto quindici libri, è uscito da poco Sepolcri di cowboy (Adelphi) e fra poco uscirà L’università sconosciuta (SUR). Sepúlveda e Bolaño sono due autori diversissimi ma sotto certi aspetti molto vicini: sono tutti e due cileni; la differenza di età era solo di quattro anni; quando uno faceva la guardia del corpo ad Allende, l’altro è sceso dal Messico in autostop per sostenere il suo governo minacciato dai militari e dalla CIA; dopo sono finiti tutti e due in carcere e poi tutti e due in esilio e alla fine hanno scelto tutti e due la Spagna… Alla fine degli anni Novanta, Lucho aveva invitato Bolaño al Salón del Libro ĺberoamericano che organizzava nelle Asturie, ma Bolaño non andò; peccato perché ci saremmo trovati lì tutti e tre insieme.

Cosa avrebbe detto Sepúlveda di questo periodo storico così difficile se la malattia non l’avesse portato via?

Da sempre Sepúlveda era impegnato su temi ecologici, è stato anche un attivista di Greenpeace, e sappiamo dagli scienziati che il COVID nasce dal rapporto malato che abbiamo col nostro pianeta, dalla deforestazione, dal massacro degli animali selvatici. Trovo quindi particolarmente ingiusto, se così si può dire, che proprio lui sia venuto a mancare per il virus. Difficile immaginare cosa avrebbe detto in questa situazione, Sepúlveda vedeva lontano, mentre noi siamo tutti così miopi. Potremmo però rileggere con profitto quello che scriveva.

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