Anne Sexton, live or die: la poetessa che tutto ciò che voleva era un pezzettino di vita

by Michela Conoscitore

Si alterava quando qualcuno, in sua presenza, esaltava il lato romantico del disturbo mentale. Lei che, per una vita intera, si è sentita “chiusa a chiave nella casa sbagliata”, a lottare col disturbo bipolare che, seppur fosse la principale fonte ispirazionale a cui si abbeverava per la propria attività poetica, non ammetteva questa beatificazione della malattia mentale da parte dei ‘normali’, gente che non ha mai saputo cosa significasse sentirsi scissa tra Eros e Thanatos, con l’irrefrenabile desiderio di farla finita.

Anne Sexton nacque a Newton nel più conservatore degli stati statunitensi, il Massachusetts: era il 1928, i genitori, Ralph e Mary, facevano parte della middle class modaiola della città. Alcolisti entrambi, avrebbero avuto tre figlie, di cui Anne era la minore. L’ambiente famigliare non era affatto dei più tranquilli. Successivamente, da adulta, quando il disturbo mentale avrebbe monopolizzato la sua vita, si sottopose ad alcune sedute di ipnosi oltre a seguire la terapia psicanalitica; emersero dal suo inconscio racconti disturbanti nei quali entrambe i genitori, nell’infanzia, pare avessero abusato di lei. L’unica figura di riferimento per la Sexton fu la prozia Anne Dingley, detta Nana, che visse con loro: l’idillio con lei, purtroppo, durò poco poiché Nana cominciò a soffrire di disturbi mentali e fu allontanata.

Anne da giovane non era interessata a nulla, tanto che i genitori la iscrissero ad una scuola professionale che non le fornì alcuna preparazione culturale. In questi casi, l’unico modo per sfuggire ad un ambiente in cui non ci si è mai sentiti accolti è quello di costruirsene uno proprio: Anne conobbe Kayo Sexton e nel 1947 fuggì con lui a Boston e lo sposò. Nel 1953 e nel 1955 nacquero le due figlie, Linda e Joyce, ed insieme iniziarono ad emergere i primi squilibri mentali.

Anne sentiva di aver raggiunto tutti gli obiettivi imposti dalla società, e ora cosa fare? La sua vita era terminata dopo aver assolto il compito di madre e moglie. Disperata e sola, nel 1956 decise di suicidarsi, attese che il marito e le bambine si fossero addormentati e andò a rifugiarsi, con una boccetta di pillole per dormire che le aveva prescritto lo psichiatra da cui era già in cura e la foto di Nana, sul dondolo nel patio di casa. Il marito la trovò riversa su di esso, riuscendo a portarla appena in tempo in ospedale:

Fino ai ventotto anni avevo una specie di sé sepolto che non sapeva di potersi occupare di qualunque cosa, ma che passava il tempo a rimescolare besciamella e badare ai bambini. Non sapevo di avere alcuna profondità creativa. Ero una vittima del Sogno Americano, il sogno borghese della classe media. Tutto quello che volevo era un pezzettino di vita, essere sposata, avere dei bambini. Pensavo che gli incubi, le visioni, i demoni, sarebbero scomparsi se io vi avessi messo abbastanza amore nello scacciarli. Mi stavo dannando l’anima nel condurre una vita convenzionale, perché era quello per il quale ero stata educata, ed era quello che mio marito si aspettava da me.  Questa vita di facciata andò in pezzi quando a ventotto anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi.

Nonostante cambiò psichiatra, un nuovo tentativo di suicidio giunse nel 1957, e anche da questo riuscirono a salvarla. Nel 1959 perse, improvvisamente, entrambe i genitori: questo accadimento si sommò alla scoperta della poesia a cui inizialmente si avvicinò tramite un programma televisivo. In quel periodo provò a colmare i vuoti culturali, leggendo di tutto.

Ciò che cambiò la vita della Sexton fu, però, il seminario sulla poesia confessionale tenuto da Robert Lowell: corrispose ad una vera e propria rinascita, perché Anne comprese di poter ricominciare, di poter non soltanto buttare fuori ma anche scrivere quello che la martoriava internamente. Il seminario di Lowell, oltre che un’occasione di crescita, la mise in contatto anche con due delle donne più significative della sua nuova vita, poetesse come lei, Maxine Kumin e Sylvia Plath. Se per Anne, Maxine diventò una sorella, con la Plath condivise l’irrefrenabile desiderio di morte, il non essere più:

Spesso molto spesso, Sylvia e io riparlavamo dei nostri primi tentativi di suicidio: molto, in dettaglio e in profondità fra una patatina fritta e un’altra. Il suicidio, dopo tutto, è il contrario della poesia. Sylvia ed io la vedevamo spesso in maniera opposta, ma parlavamo della morte con ardente intensità, entrambe attratte da questa come le zanzare dalla luce elettrica.

Anne era bellissima, affascinante e in costante ricerca di novità amorose, non fu mai fedele al marito Kayo per quanto proseguisse a vivere con lui. La sua anima era in perenne ricerca di stimoli, sentiva la necessità di essere dominata da un uomo, costantemente in balia di un desiderio sessuale che, poi, si trasformava in poesia:

Quando l’uomo

Entra nella donna,

come un’onda che addenta la spiaggia,

ancora, ancora,

e la donna spalanca la bocca di piacere

e le brillano i denti

come un alfabeto,

il Verbo appare mentre munge una stella

[…]

Quest’uomo,

questa donna

nella loro duplice fame,

cercano di spingersi oltre

la cortina di Dio

e per un attimo ci riescono,

ma Dio

nella sua perversità scioglie il nodo.

La poetica sextoniana affronta molteplici temi, seguendo le direttive della corrente confessionale: la poetessa metabolizzava, nei versi, non soltanto la propria malattia mentale, le tendenze suicide, ma anche la maternità, l’oppressione dei ruoli sociali, la terapia psicanalitica, le relazioni della sua vita, in primis quella con la madre estraniante e complicata. Comporre era diventato per Anne la terapia più efficace al mondo, nelle poesie esprimeva senza timori le spinte inconsce, i propri demoni sublimandoli in un qualcosa di comprensibile, soprattutto per lei. La poesia, quindi, per Anne fu la chiave per aprire quella casa in cui si sentì rinchiusa da sempre, potè uscirne e vivere, finalmente a modo suo. Uno degli aspetti più indagati dalla Sexton fu proprio il ruolo di madre, dedicò alla figlia Linda questa poesia:

Avevo bisogno di te. 

[…]

Io, che non ero mai stata certa

di essere una bambina, avevo bisogno di un’altra

vita, di un’altra immagine che me lo ricordasse.

E questa fu la mia peggior colpa: tu non potevi

curarla o alleviarla. Ti ho fatta per ritrovarmi.

Le sue poesie furono ben presto pubblicate, il mondo letterario riconobbe in lei un autentico fenomeno non solo culturale ma anche di costume: Sexton diventò una letterata socialite, acquisì poi un’anima rock con cui provò a ravvivare la sua vena poetica, fondando addirittura una band che l’accompagnava nei suoi recital pubblici. Nel 1967, con la raccolta Live or Die la poetessa vinse il Premio Pulitzer per la poesia che segnò l’apice della sua carriera. Nel 1973 chiese il divorzio, avviandosi inconsapevolmente verso la solitudine, l’alcolismo ereditato dai genitori e l’aggravarsi della salute mentale. Virò, poco prima della fine, verso Dio. Questa svolta poetica non fu molto apprezzata dai suoi lettori, che cominciarono ad abbandonarla. Con essi non ebbe mai un rapporto facile, l’avevano sempre terrorizzata. Le ultime raccolte poetiche furono The book of folly, The death notebooks e The afwul rowing toward God, pubblicato postumo nel 1975.

Il 4 ottobre del 1974 pranzò con l’amica Maxine Kumin; tornata a casa, prese accordi per la serata con alcuni amici. Poi, indossò la vecchia pelliccia della madre, tutti i suoi anelli, si versò un bicchiere di vodka e si diresse verso il garage. Accese il motore della sua auto, e attese. La ritrovarono avvelenata dal monossido di carbonio, nel suo solitario sogno di morte.

La donna è madre di sé stessa.

È questo che conta.

.

Casalinga, Anne Sexton

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