Artemisia Gentileschi, la pittrice che sentiva la vita con maggiore intensità, accettandone sofferenza e bellezza

by Michela Conoscitore

Il vociare fragoroso che proviene dalla vicina via Margutta, la strada degli artisti, riempie la stanza in cui un uomo sta insegnando alla figlia come tratteggiare un volto su una tela. La ragazza è concentrata sulle parole del padre e ipnotizzata dal movimento che il suo pennello sta delineando sul fondo bianco e immacolato, pronto per essere animato da rappresentazioni vive e potenti. Da pochi anni è iniziato il diciassettesimo secolo, Roma è un brulicare di artisti, provenienti da tutto il mondo conosciuto, attirati lì da ricche committenze. Quel che la città ancora non ha visto o sperimentato è un pittore donna: sta accadendo in quella stanzina di via della Croce, e i protagonisti sono Orazio Gentileschi e sua figlia Artemisia.

Artemisia Gentileschi nacque a Roma, nel 1593. Il padre Orazio era di Pisa, trasferitosi a Roma per lavoro, e la madre si chiamava Prudenzia Montoni. Primogenita di quattro figli, la futura pittrice rimase orfana di madre ben presto, a dodici anni nel 1605. Ciò contribuì a saldare maggiormente il rapporto col padre, a cui si legherà profondamente. Orazio, artista conosciuto e affermato, si accorse dell’inclinazione precoce della figlia alla pittura e decise di mettere a frutto quel dono insegnandole sin da piccola la macinazione dei colori, la mistura degli oli e la preparazione delle tele.

Artemisia, quindi, cominciò a collaborare col padre ad alcune opere, e fu stimolata enormemente dal vivace andirivieni nella bottega del genitore, tappa obbligata di artisti affermati che erano a Roma, in quel momento. Uno su tutti, Caravaggio, amico del padre: fu lui, per la giovane Artemisia a costituire la guida nell’acquisizione di una tecnica pittorica personale, che non fece di lei una semplice caravaggesca, ma una vera e propria precorritrice nel panorama della pittura barocca.

Questa femina, come è piaciuto a Dio, avendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere.

Lettera di Orazio Gentileschi alla granduchessa di Toscana per presentare la figlia Artemisia, 1612

Oltre alle influenze di Annibale Carracci, Artemisia iniziò a concepire, grazie anche al benestare del padre che la ritenne pronta, opere personali, la prima è datata probabilmente 1610, Susanna e i vecchioni, una delle sue più celebri che contiene già le novità per cui Artemisia si farà notare, lasciando un segno rimarchevole nella storia dell’arte. Riprendendo un episodio biblico, la pittrice mette in scena un sentimento estremamente moderno e personale, l’interiorità, infatti, nella sua pittura, ricoprirà sempre un aspetto preponderante donando ai volti dei soggetti rappresentati la vita, la crudezza dell’avvenimento che stavano sperimentando. Immedesimandosi, o traslando quei sentimenti, Artemisia raccontava quindi sé stessa e l’epoca in cui ha vissuto: per Susanna e i vecchioni, l’artista pensò sicuramente alle insistenti occhiate che gli uomini avevano cominciato a rivolgerle; in quell’epoca essere donne era difficile e pericoloso, Orazio lo sapeva bene, e preoccupato, in attesa di trovare un buon marito per la figlia, decise di proteggerla aumentando la sua permanenza in casa, riducendo al minimo i suoi contatti con l’esterno.

Artemisia, quindi, trascorreva le sue giornate dipingendo e occupandosi della casa e dei tre fratelli minori. Frequentava la Tuzia, una vicina che abitava al piano superiore a quello dei Gentileschi e alcuni pittori, amici del padre, come Agostino Tassi. Lo stesso Orazio, fidandosi del Tassi nonostante la sua fama poco rassicurante, volle affidare la figlia all’amico e collega affinchè le insegnasse la prospettiva, in cui Agostino detto lo smargiasso, era maestro. Gentileschi e Tassi stavano lavorando insieme, in quel periodo, al Casino delle Muse di Palazzo Rospigliosi, quindi il pittore era spesso a casa Gentileschi, oltre che per dare lezioni alla giovane Artemisia. Tassi, come altri, rimase colpito dal suo fascino tanto da provare a convincerla nel concedersi a lui. La giovane, credente e fedele ai suoi ideali, non cedette mai. Una mattina, con la complicità di Tuzia e approfittando dall’assenza di Orazio, Tassi violentò Artemisia. Fu la stessa pittrice a raccontarlo durante il processo che prese avvio un anno dopo l’accadimento:

Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne.

La ‘relazione’, nonostante la violenza subita, proseguì per un anno perché, allora, lo stupro non era visto come una violenza alla donna ma un’offesa alla sua famiglia a cui si poteva porre rimedio col matrimonio riparatore. Agostino Tassi e Artemisia, quindi, continuarono ad avere rapporti come marito e moglie perché lui promise innanzitutto ad Orazio che l’avrebbe sposata. Fin quando poi si venne a scoprire che l’uomo era già sposato, e quindi impossibilitato a contrarre altro matrimonio. Orazio Gentileschi rivolse una supplica al Papa, dando così avvio al processo:

Una figliola dell’oratore è stata forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più et più volte da Agostino Tasso pittore et intrinseco amico et compagno del oratore, essendosi anco intromesso in questo negozio osceno Cosimo Tuorli suo furiere; intendendo oltre allo sverginamento che il medesimo Cosimo furiere con sue chimere abbia cavato dalle mane della medesima zitella alcuni quadri di pitture di suo padre et in specie una Juditta di capace grandezza. Et pechè, B[eatissimo] P[adre], questo è un fatto così brutto et commesso in così grave et enorme lesione et danno del povero oratore et massime sotto fede di amicizia che del tutto si rende assassinamento.

Supplica a Papa Paolo V di Orazio Gentileschi, 1612

A subire il vero processo fu Artemisia: sottoposta ad innumerevoli le visite ginecologiche miranti ad attestare la violenza, gli interrogatori la costrinsero a ripercorrere quell’evento che l’aveva profondamente traumatizzata, e in ultimo subì la tortura detta ‘della Sibilla’. Ad essere verificata, quindi, non fu la colpevolezza del Tassi ma la veridicità del racconto di Artemisia, ulteriore brutalità che la pittrice affrontò con coraggio e determinazione. La tortura della Sibilla, a cui Artemisia si sottopose senza timore, era stata concepita appositamente per i pittori e consisteva nel legare strettamente i pollici con delle cordicelle che, man mano, aumentavano la presa sulla carne tanto da arrivare, a volte, a staccare le falangi. Rischiò Artemisia di non poter più dipingere, ma attestare la propria e vera versione dello stupro necessitava questo sacrificio.

Questo è l’anello che mi dai, e queste sono le promesse!”, disse Artemisia durante la tortura, mentre le cordicelle le stritolavano i pollici, guardando negli occhi Agostino Tassi: il processo si concluse con la condanna dell’uomo anche se, grazie agli illustri protettori che lo volevano a Roma, l’artista non scontò mai la pena, ovvero l’allontanamento dalla città. A lasciare Roma fu Artemisia, la sua reputazione era stata pesantemente compromessa e nonostante la condanna di Tassi, pochi credettero alla sua innocenza tanto da farle terra bruciata attorno. Il giorno dopo la sentenza, Artemisia si sposò con il pittore Pierantonio Stiattesi, un’unione voluta dal padre per ridare alla figlia l’onore perduto. La coppia si trasferì a Firenze, dove Orazio aveva un fratello che introdusse la nipote alla corte dei Medici, per ricevere committenze e farsi conoscere. Allora, Firenze era governata da Cosimo II, mecenate e amante delle arti, quindi la pittrice trovò terreno fertile nel capoluogo toscano dove si legò profondamente in amicizia a Michelangelo Buonarroti il Giovane, nipote del grande scultore, e allo scienziato Galileo Galilei con cui intrattenne per tutta la vita una fitta corrispondenza. Un ambiente culturale, quello fiorentino, che l’accolse benevolmente, che potenziò il suo ingegno e la stimolò su molteplici questioni, il tutto si tradusse nella pittura che divenne più consapevole e innovativa. Attraverso di essa, Artemisia provò a metabolizzare anche il triste ultimo suo periodo romano, e ciò emerge dal suo straordinario Giuditta decapita Oloferne. Un altro dipinto celebre del periodo fiorentino di Artemisia fu l’Allegoria dell’Inclinazione, commissionata dallo stesso Buonarroti.

Intanto, il matrimonio con lo Stiattesi si rivelò di convenienza e senza amore. La coppia ebbe quattro figli a cui Artemisia dovette provvedere sempre da sola, essendo Stiattesi un pittore mediocre e uno scialacquatore. Nel frattempo, la pittrice fu la prima donna ad essere ammessa all’Accademia del Disegno. A Firenze, conobbe anche l’amore con Francesco Maria Maringhi, anche se una volta scoperta la loro relazione destò scandalo e si interruppe.

Non ha casa il suo corpo giovane e perseguitato, non ha casa il suo spirito che troppe volte non trova nè condizione nè tempo che lo esprima, e non può accettarsi nè farsi accettare senza violenza.

Artemisia, Anna Banti

Maturava nella donna, ormai da tempo, il proposito di lasciare Firenze in cerca di nuove committenze, spinta anche dall’enorme ammirazione e attenzione che i contemporanei le stavano dimostrando, ormai era diventata una delle pittrici più quotate e richieste, anche dai sovrani europei che se la contendevano: viaggiò molto Artemisia, tornò a Roma, poi Venezia, giunse a Napoli dove stabilì definitivamente casa e bottega, ed educò le figlie, dopo la morte del primogenito, assicurando loro un futuro sereno. Nel 1638 raggiunse il padre Orazio, nominato pittore di corte dalla regina d’Inghilterra Enrichetta Maria di Borbone, aiutandolo ad ultimare le decorazioni del soffitto della Casa delle Delizie, a Greenwich. Il re Carlo I, da molti definito un collezionista ossessivo, volle per sè numerosi quadri della pittrice italiana, tra cui il più significativo fu l’Autoritratto come allegoria della pittura.

Ad uno dei suoi committenti più affezionati, don Antonio Ruffo, per convincerlo all’inizio del loro rapporto a fidarsi delle sue capacità, Artemisia scrisse: “Mostrerò alla Vostra Illustre Signoria ciò che una donna può fare, le opere parleranno da sole”. Così è stato, Artemisia non si diede mai per vinta lottando per affermare la sua presenza nel mondo dell’arte, tanto che oggi i suoi dipinti sono esposti nei musei più importanti del mondo.

L’artista morì a Napoli, nel 1656 presumibilmente a causa della terribile epidemia di peste che colpì la città in quel periodo; lavorò fino all’ultimo, coadiuvata dai suoi aiutanti.

Io sento la vita con maggiore intensità di quanto non faccia lei. Ne accetto la sofferenza quanto la bellezza. Spero di morire felice di avere vissuto veramente”.

La passione di Artemisia, Susan Vreeland

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