A sfortunati amori io nacqui: la storia di Elsa Morante e Alberto Moravia

by Michela Conoscitore

Tu che ti leghi per la vita e per la morte, quasi t’identifichi con le cose che fai. Ma vedi, tu appunto hai questo dono di ricondurre ad unità gli elementi più disparati. Tu senti che il mondo è fatto a pezzi, che le cose da tener presente sono moltissime e incommensurabili tra loro, però con la tua lucida e affezionata ostinazione riesci a far tornare sempre i conti.
Lettera di Italo Calvino a Elsa Morante

Quell’incontro fu fortemente voluto e cercato, anzi quasi preteso. La loro conoscenza in comune, il pittore Giuseppe Capogrossi, organizzò la serata, per soddisfare la richiesta dell’amica. Lei arrivò in ritardo, forse causato dalla troppa emozione, stava per conoscere l’enfant prodige della letteratura italiana contemporanea.

Un ragazzo che, a ventidue anni, aveva pubblicato un romanzo come Gli indifferenti, non può che incutere soggezione in una scompaginata intellettuale di ventiquattro anni come lei, ancora senza fissa dimora, mentale e fisica. Si diedero appuntamento a Piazza Santi Apostoli, e con Capogrossi si diressero in una birreria della zona; le sue intuizioni, assaporandolo di persona, furono confermate: Alberto Moravia era un portento, lo percepì così. Forse era quel che mancava, allora, nella vita emotiva di Elsa Morante. I due si piacquero immediatamente, strinsero un legame spontaneo tanto che lei gli diede le chiavi di casa sua già quella prima sera. Non si può prescindere da Alberto Moravia, se si racconta Elsa Morante. Le loro vite furono indicibilmente intrecciate, forse anche più di quel che vollero loro stessi.

Con quali aggettivi si può descrivere Elsa Morante? Spigolosa, indomita, indipendente, volitiva, caparbia. Tutte caratteristiche che sembrano richiamare la natura felina dei suoi amati gatti. Innanzitutto, doveroso ricordare che la Morante non amava esser chiamata ‘scrittrice’, preferiva scrittore al maschile: “Il concetto generico di scrittrici come di una categoria a parte, risente ancora della società degli harem”. Già questa puntualizzazione fa ulteriormente comprendere il carattere pungente di una formidabile primatista della nostra letteratura.

Elsa Morante nacque a Roma, al Testaccio, nel 1912. Figlia di Irma Poggibonsi, maestra ebrea modenese e di Francesco Lo Monaco, un impiegato delle poste. La sua situazione famigliare non era chiara o lineare, perché lei e i suoi fratelli erano figli illegittimi della coppia, e furono riconosciuti col beneplacito del marito della madre, Augusto Morante, un istitutore in una casa di correzione.

Il rapporto con la scrittura sbocciò molto presto: Elsa, pur non avendo frequentato le scuole elementari, imparò a leggere e scrivere precocemente, raccontandosi favole che, in seguito, le fungeranno da base per le sue future collaborazioni con riviste di settore, come Il corriere dei Piccoli. Terminati gli studi liceali, si iscrisse alla facoltà di Lettere, la quale fu costretta ad abbandonare per scarsità di mezzi economici. Decise di andare a vivere da sola, provando a mantenersi come poteva, e non abbandonando mai il progetto di vivere della sua scrittura. Pubblicò qualche racconto, poi sopraggiunse, nel 1936, l’incontro con Moravia e i suoi orizzonti cambiarono velocemente. La coppia si sposò nell’aprile del 1941, ma la guerra travolse quell’iniziale ménage matrimoniale, irrompendo violenta con censure e minacce di arresti per Moravia, inviso al regime fascista: “La scelta è tra diventare un adulatore stipendiato oppure avvicinarsi ogni giorno di più al silenzio completo e magari alla prigione”, annotò Moravia.

I due scrittori pianificarono di allontanarsi da Roma, dove la Morante lasciò momentaneamente un manoscritto a cui aveva iniziato a lavorare. Il treno fu bloccato a Fondi, in Ciociaria, e per nove mesi vissero appartati e dimenticati, eppure sempre vigili sulla realtà che li circondava, che servirà loro da materiale per i successivi romanzi. Tornati a Roma, presero casa in via dell’Oca, e finalmente poterono dedicarsi alla scrittura.

I loro approcci alla letteratura furono profondamente dissimili, come narrò lei stessa in questo ricordo: “Invidio Alberto che è così metodico. Lui non crede all’ispirazione ma alla perseveranza e qualunque cosa avvenga si mette a scrivere ogni mattina. Poi è libero e soddisfatto e la giornata gli si stende davanti placata. Io invece riesco a scrivere soltanto di pomeriggio e soltanto quando i miei personaggi mi chiamano. Ma il lavoro pomeridiano incide su tutta la giornata, proietta la sua ombra, come un rimorso, anche sul profilo innocente dei mattini. Solo il momento in cui si deve accendere la lampada sul tavolo mi salva.

Se la Morante inizialmente fu avvinta, quasi dipendente da Moravia, al quale oltre che amore, la legava un sentimento di sana invidia, in seguito si rese conto di volerlo anche compiacere, di rincorrerlo in quelle sue dimensioni borghesi, inarrivabili per lei che aveva sempre dovuto fare i conti con i soldi che mancavano e la vita che incalzava.

Così scrisse all’amica Luisa Fantini: “A. è uno snob e io vorrei soddisfare con la mia persona il suo snobismo, avendo per esempio un’alta posizione sociale o essendo illustre. Niente di tutto questo è, e ieri quella visita alla Mostra con la coscienza di non essere una persona importante là dentro, e lui che parlava con la contessa, e io ubriaca con brutti guanti alle mani e poi non mi presentarono gli Accademici, e il suo racconto di quei giorni passati in quella villa aristocratica, di quella signora dell’aristocrazia amata da lui…Basta, è una lunga lista di umiliazioni. Credevo di averle vinte col solito pensiero che io valgo tanto, che so di essere…Un errore”.

Le coppie di letterati sono una peste”, aggiungerà anche la Morante, in quella competizione inestinguibile che, col tempo, ingaggerà col suo Alberto. Dopo la guerra, il più prolifico tra i due sarà proprio lui, che diede alle stampe, tra gli altri, La romana, Il conformista e La ciociara. Lei, invece, riprese in mano il manoscritto che aveva lasciato a Roma prima della fuga, e una volta concluso lo inviò a Natalia Ginzburg, presso la casa editrice Einaudi.

Così pubblicò il suo primo romanzo, Menzogna e sortilegio: era il 1948, e la Morante era innocentemente agli inizi di una carriera nella quale, in molti, videro già bagliori di grandezza. Si avverte nel primo romanzo l’unicità di questo ‘scrittore’ donna, che trascende il suo sesso per parlare di umanità che, effettivamente, non conosce genere. Elsa Morante associava una matura consapevolezza letteraria ad una poetica sensibile e lucida. Il risultato di questo connubio non può che essere Arte allo stato puro.

Nel frattempo, il matrimonio con Moravia proseguiva tra alti e bassi, intervallati dai numerosi tradimenti dello scrittore. Eppure la Morante non arretrò e non si arrese davanti a colui che, da tutti, era considerato un gigante della letteratura, ma in fondo era soprattutto un uomo imperfettissimo: “Devo fingere di non badargli troppo, perché egli poi mi cerchi, mi insegua. Disperata fuga, disperato giocare a nascondersi. Perché dobbiamo essere così? Per consolarmi, ho l’amicizia di alcuni grandi pittori e poeti che mi vengono a trovare e mi dicono che sono tanto brava, tanto bella e tanto buona e che devo abbandonare A. perché lui mi fa venire le rughe e io gli faccio venire gli attacchi. E che mai potrà cambiare perché se a 30 anni non è cambiato non potrò cambiarlo io. E io, dura come un masso a dire che io lui siamo come fratelli siamesi”.

Le asprezze del loro rapporto toccavano vertici pericolosi, quando il lavoro letterario di Moravia non conosceva soste, mentre la Morante prendeva tempo per riflettere sul suo nuovo romanzo.

Scrisse all’amica Maria Valli: “Sono contenta che a te e a Penna sia piaciuto un racconto di Alberto, detto racconto è un plagio (mediocremente riuscito) di un mio breve racconto. Lo dico non per rivendicare nulla (ché una milionaria d’idee come me può anche permettersi il lusso di regalare un’idea), ma semplicemente perché altrimenti fra qualche anno, quando si saran confuse le date, voi estimatori di Alberto e razzisti antifemminili sareste capaci di dire che sono stata io, in quel mio racconto, a plagiare lui!”.

Si intravedono gli artigli di gatto, e si sentono soffi minacciosi di felino: Elsa difende la sua creatività, ma allo stesso tempo, afferma la sua presenza, anche come musa, nella vita di suo marito. Così, quando lei si allontana, lui si accorge di aver perso. Quando Moravia le dedica questo pensiero, era già troppo tardi: “Insomma io vorrei veramente convincerti che la sola persona che ti voglia veramente bene al mondo sono io e che fai male a irrigidirti contro questo bene”.

Nel 1957, la Morante presentò il suo primo grande successo, L’isola di Arturo: vinse quell’anno il Premio Strega, altro primato che aggiunse al suo palmares, poiché il prestigioso riconoscimento letterario non era, fino ad allora, mai stato conseguito da una donna. Chi è Arturo? “È la storia di un ragazzo che scopre le cose grandi, belle e brutte, della vita. Vede le cose per la prima volta e non ha esperienza del bene e del male. Tutto quello che gli cade sotto gli occhi è di una particolare bellezza”, spiegò la Morante ai suoi lettori. Essenzialmente, lei si identificò sempre coi suoi protagonisti, quindi si può dire che Arturo è Elsa, nella sua fervida convinzione che solo mantenendo l’innocenza dei fanciulli e dei ragazzi si riesce a vedere il mondo per com’è realmente.

Dopo la fine del matrimonio con Moravia, nel 1961, la Morante inanellò una serie di ‘avventure’ lavorative e dell’anima, non rimanendo più ferma a scrivere, ma catapultandosi in un mondo, quello all’alba del Sessantotto, sempre più veloce e caotico. Intrecciò una relazione con il regista Luchino Visconti, non corrisposta, e con l’artista americano Bill Morrow, la cui tragica morte scosse profondamente la scrittrice.

I rapporti d’amicizia con Pier Paolo Pasolini, Umberto Saba, Giorgio Bassani e altri l’accompagnano; soprattutto quello con Pasolini, che vide la Morante impegnata al cinema, una sua grande e sconosciuta passione: comparirà nel film Accattone, e collaborerà con l’amico ai film Il vangelo secondo Matteo e Medea. Tramite Visconti, conobbe anche Franco Zeffirelli che la coinvolse nei suoi primi lavori da regista.

L’impegno civile dell’intellettuale romana, che provò a spiegarsi e a spiegare quegli anni così tumultuosi, è racchiuso tutto nel saggio/discorso Pro o contro la bomba atomica, del 1965, letto dal palco del Teatro Garigliano di Torino, dove affermò che “L’umanità contemporanea prova l’occulta tentazione di disintegrarsi”. Un’altra importante opera morantiana è sicuramente Il mondo salvato dai ragazzini, del 1968, dove l’oggetto indagato nei suoi scritti, ossia la realtà che la circonda, esce completamente allo scoperto, in un’analisi del genere umano che viene suddiviso dall’autrice in F(elici) P(ochi) ed I(nfelici) M(olti):

Ah, Dottori Dottori! alla vostra età!

Ma perché, perché, ma

p e r c h é

signori Dottori I(nfelici) M(olti) dell’Universo

con tutto che vi addottorate e vi baccalaureate

e vi improfessorate nelle Università

e la storia e la geografia studiate viaggiate vi scafate, le macchine fabbricate

sviscerate la scienza

inventate l’atomica e il volo lunare

però questa primaria lezione dell’esperienza

ancora non la volete imparare?

Ve lo ripeto, o Signori I.M., non c’è verso:

con i F(elici) P(ochi) non ce la potrete mai spuntare.

Quelli conoscono il volo da prima assai dell’aviazione conoscono

la medicina che guarisce tutti i mali da prima assai

della penicillina quelli sanno la resurrezione

dai morti!

Non illudetevi di poterli eliminare.

Magari vi credete d’averli mangiati quando invece sul più bello del vostro banchetto

rieccoli che tornano a zompare

sui vostri piatti.

Quelli sono incredibili inconcepibili inammissibili sono tutti matti.

E non cullatevi nella speranza di poterli rieducare

indi paternamente legittimare.

Sappiàtelo, o padri meschini I(nfelici) M(olti) d’ogni paese:

se ancora il corpo offeso dei viventi resiste

in questo vostro mondo di sangue e di denti

è perché passano sempre quelle poche voci illese

con le loro allegre notizie.

Attestando anche la sua passione per la poesia, con Il mondo salvato dai ragazzini, manifesto e favola allo stesso tempo, la Morante guidò i suoi lettori nell’individuare le categorie fondative della società umana: quelli che si illudono di sapere, di riuscire, di essere, e quelli che, semplicemente, Sono ma non lo decantano o ostentano. Ritorna, appunto, in questo scritto la semplicità di Arturo, quello sguardo bambino su una realtà che troppo spesso viene inspiegabilmente demistificata.

La Morante pensò di fermarsi dopo quest’ultimo lavoro, invece i ricordi della guerra riemersero quando ritrovò un suo manoscritto, risalente ai primi anni Sessanta, il quale dà vita al suo romanzo più epico, La storia, pubblicato per Einaudi nel 1974.

Il romanzo fu, fin da subito, dato alle stampe in formato economico, richiesta dell’autrice perché desiderava che il libro fosse alla portata di tutti, soprattutto dei vinti, degli ultimi, i protagonisti dell’opera, i suoi preferiti. In pochi giorni vendette 600.000 mila copie, e si inscrisse immediatamente tra i classici della letteratura italiana. A Davide Segre, uno dei protagonisti, Elsa Morante imbocca parole immortali, che varranno sempre da monito: “NESSUN potere, di NESSUN tipo, a NESSUNO, su NESSUNO! Chiunque parla di rivoluzione e, insieme, di Potere, è un baro! e un falsario! E chiunque desidera il Potere, per sé o per chiunque altro, è un reazionario; e, pure se nasce proletario, è un borghese!

La grande eco del romanzo La storia la accompagnò anche nel periodo buio che attraversò successivamente, dove vicende personali e pubbliche si attorcigliarono, non rendendole semplice il passaggio alla vecchiaia: l’assassinio di Pasolini, l’Italicus, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, fino ad arrivare al proprio tentativo di suicidio nel 1983, da cui la salvò la domestica.

L’ultimo suo romanzo fu Aracoeli, che racchiuse quella cupezza che aveva avvolto, al termine, la vita della Morante. Morì il 25 novembre del 1985, per infarto. Moravia, che era a Bonn, tornò a Roma il prima possibile e raccontò: “Tornai a Roma in tempo per il funerale. Nella corsa del carro funebre i fiori, probabilmente male assicurati alla corona, volarono via uno dopo l’altro e andarono a schiacciarsi sull’asfalto. Quei fiori che volavano via tra il carro funebre di Elsa e la mia macchina mi fecero un’impressione delirante e simbolica: così era volata via Elsa dalla mia vita”.

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