Evita Peron, la Madonna dei descamisados che fece della sua miseria il suo punto di forza

by Germana Zappatore

Ricordo perfettamente che per molti giorni rimasi triste quando venni a sapere che nel mondo c’erano i poveri e i ricchi; e lo strano è che non tanto mi addolorasse l’esistenza dei poveri, quanto sapere che, nello stesso tempo, c’erano anche i ricchi.

Quella consapevolezza dolorosa, Eva Peròn se la portò fino al giorno della morte. E fu proprio grazie ad essa che Eva María Ibarguren, ultima dei cinque figli illegittimi del piccolo proprietario terriero argentino Juan Duarte e della sua cuoca-amante Juana, divenne Evita la ‘Madona de los descamisados’.

Lei, nata nel 1919, conosceva personalmente la miseria e sapeva bene cosa significasse essere estremamente povero nell’Argentina del primo Novecento dove la ricchezza era nelle mani di pochissimi e il governo in quelle di una oligarchia prettamente militare che amministrava il Paese a suon di mazzette e brogli elettorali. E poi Eva Maria era doppiamente emarginata: oltre che povera era anche una figlia illegittima, marchio che la accompagnò per tutta la vita e che divenne l’arma preferita dei suoi detrattori. Tuttavia la sua miseria personale fu la sua forza, la sua arma vincente.

La voglia di riscatto la portò a lasciare casa a sedici anni per inseguire il sogno di attrice. Arrivò a Buenos Aires al seguito del cantante di tango e suo amante Agustìn Magaldi, ma le cose non andarono come aveva immaginato: piccole parti a teatro alternate a periodi di inattività durante i quali patì la fame e si legò a diversi uomini che secondo lei potevano aiutarla a diventare un’attrice famosa. La svolta artistica arrivò solo nel 1939 quando divenne l’attrice di punta di tre seguitissimi radiodrammi e di alcune pellicole cinematografiche. Ma l’incontro che cambiò davvero la sua vita avvenne soltanto cinque anni dopo.

Era il 22 gennaio del 1944 e Juan Domingo Peron, colonnello dell’Esercito argentino e sottosegretario del Departamento Nacional del Trabajo (il Ministero del lavoro), aveva organizzato un evento di beneficenza per raccogliere fondi da destinare alla ricostruzione della città di San Juan che era stata rasa al suolo da un terremoto una settimana prima. Eva era una delle ospiti. Peron rimase folgorato non soltanto dalla sua bellezza.

Da qual momento iniziò la loro storia d’amore osteggiata dai democratici che accusavano Peron di essere un fascista ed un ammiratore di Mussolini, ma anche dagli stessi militari che non perdonavano ad Eva le sue umili origini e il torbido passato (la chiamavano ‘prostituta’). In realtà i suoi trascorsi erano solo un appiglio dietro il quale si nascondeva il timore che le sue idee populiste – già sposate da Peron che nel frattempo era diventato anche vicepresidente dell’Argentina e aveva attuato misure a sostegno dei lavoratori come l’aumento dei salari – potessero minare l’ordine politico e sociale dell’Argentina. Per questo nel 1945 Juan fu arrestato e costretto a lasciare tutte le sue cariche.

Ma Eva Duarte era già diventata Evita, la paladina dei ‘descamisados’ (persone talmente povere da non potersi permettere nemmeno una camicia). “Sono una di voi, ho sofferto la fame, il lavoro è mancato anche a me, ma ho trovato la salvezza in Peròn. Possa la nazione lasciarsi salvare da Peròn, così come ho fatto io” aveva detto al popolo argentino per farlo mobilitare per il rilascio del suo amato che lei dipingeva come ‘uomo del popolo’ proprio perché si era legato ad una come lei. Le marce in piazza costrinsero a liberarlo.

Ma era solo l’inizio. Una volta diventata first lady della Casa Rosada (il colonnello l’aveva sposata il 22 ottobre del 1945 ed era diventato il Presidente della Repubblica argentina l’anno successivo) la donna fece del ‘cambiamento’ l’unica ragione della sua vita, e gli emarginati divennero la sua seconda famiglia. “La carità separa il ricco dal povero, l’aiuto solleva il bisognoso e lo pone allo stesso livello dei ricchi” continuò a ripetere per tutta la vita, memore degli stenti patiti fino ad una manciata di anni prima e perennemente animata da quella voglia di riscatto che era stata la sua forza nei momenti più bui.

E così, battendosi affinchè le donne avessero “gli stessi diritti politici e obblighi che la legge argentina impone agli uomini”, riuscì a far approvare nel 1947 la legge che estendeva anche a loro il diritto di voto e a fondare due anni dopo il Partito Peronista Femminile. Soppresse la tradizionale ‘Organizzazione di Beneficenza Argentina’ rea di non volerla perché di umili origini e al suo posto creò la ‘Fondazione Eva Peron’ grazie alla quale vennero date borse di studio ai bambini in condizioni disagiate, furono costruiti ospedali, orfanotrofi e scuole nelle zone più povere, ma anche laboratori di igiene e profilassi, case per anziani e senzatetto (resterà famosa la cosiddetta ‘Eva City’ con circa 4mila alloggi popolari). La Fondazione, inoltre, si preoccupò della realizzazione di campi estivi per garantire l’accesso di bambini e ragazzi argentini poveri alle attività sportive.

Evita Peron divenne così ‘Santa Evita’, la ‘Madona de los descamisados’ che ai meno fortunati non lesinò mai incontri, abbracci e parole di conforto, anche se era sempre vestita e pettinata di tutto punto e spesso ornata di preziosi gioielli. Insomma, Peron si occupava delle decisioni politiche mentre Evita della parte più emotiva della stessa politica. Una coppia perfetta.

Ma la magia finì troppo presto. A causa di un tumore Evita morì a soli 33 anni il 26 luglio del 1952. Il popolo argentino pianse lacrime amare e disperate: la loro Madonna se ne era andata via per sempre, cosa ne sarebbe stato di loro?

Il suo corpo venne imbalsamo ed esposto per 13 giorni. Poi fu seppellito in una cappella privata dove vi rimase fino al 1955, anno in cui un golpe destituì Juan Peron (al secondo mandato grazie anche alla mobilitazione della moglie). Il timore per la sorte della salma fece organizzare una ‘Operazione Evasione’ con la quale il corpo di Evita fu trasferito in diversi luoghi in giro per l’Europa fino a raggiungere il cimitero di Milano il 13 maggio 1957 dove venne deposto in una tomba sotto il nome falso di Maria Maggi de Magistris.

Evita ritornò a Buenos Aires nel cimitero di Recoleta soltanto nell’ottobre del 1976 dopo essere passata per la villa di Madrid dove il marito Juan Peron visse in esilio fino al 1974.

Eva Peron fu davvero l’Argentina. Il popolo l’amò tantissimo perché era una di loro. E l’Argentina continuò ad amarla e a venerarla quasi fosse una Santa anche dopo la sua morte avvenuta il 26 luglio del 1952 a causa di un cancro. Lo dimostra il fatto che il suo corpo imbalsamato fu esposto pubblicamente in una bara di vetro per quindici giorni: tutti volevano salutare per l’ultima volta la ‘Madonna dei descamisados’.

Aveva carisma, sapeva come prendere il ‘suo’ popolo e portarlo dalla sua parte (che era quella del marito). Per questo i militari e gli stessi alleati la temevano e fecero pressione su Juan Peron affinché non la facesse candidare alla vicepresidenza del suo secondo mandato.

E per questo, forse, la temeva anche il consorte. I media, complice il famoso musical firmato da Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, ci hanno trasmesso l’immagine di un grande amore fra Eva e Juan Domingo Peron. Ma probabilmente non è stato così. O almeno non negli ultimi tempi. Le cronache, infatti, raccontano di un marito che dormì in una stanza separata durante i mesi della malattia e di una madre e una sorella che furono le uniche persone presenti nel momento in cui la donna spirò.

E poi c’è un dettaglio inquietante proprio in merito al suo decesso: Eva Peron, tra maggio e giugno del 1952, subì una lobotomia. La notizia iniziò a circolare nel 2005 quando il neurochirurgo ungherese George Udvarhelyi dichiarò in una intervista di aver partecipato alla lobotomia di Eva Peron. Le prove, però, arrivarono soltanto nel 2011 grazie ad un neurochirurgo della Yale University Medical School, Daniel Nijensohn, che era riuscito ad entrare in possesso delle radiografie della first lady argentina (il 2011 è l’anno in cui cadde il segreto di Stato sulla morte di Evita) nelle quali si vedevano chiaramente dei segni di perforazione nel cranio.

Negli anni Cinquanta del secolo scorso, infatti, la lobotomia (intervento che tagliando le connessioni neurali del cervello con il lobo prefrontale andava ad interrompere le risposte emozionali) era una pratica molto diffusa per ridurre il dolore e per trattare malattie psichiatriche. Dunque, nel 2011 sembrava verosimile che una simile pratica fosse stata resa necessaria per allievare le sofferenze di Evita causate dal cancro che la stava consumando. Ma subito dopo le rivelazioni di Nijensohn si fece largo un’altra ipotesi sconvolgente: la lobotomia, che veniva impiegata anche per modificare il comportamento e la personalità in individui violenti e bellicosi, forse era stato il tentativo estremo del Presidente argentino di frenare il comportamento sempre più pericoloso della consorte e “prevenire una guerra civile, specialmente tra le due ali del peronismo”.

Negli ultimi mesi di vita la first lady, infatti, era diventata aggressiva e a tratti belligerante. Durante il suo ultimo discorso pubblico datato primo maggio 1952, in occasione della Festa dei Lavoratori, acclamata dal popolo aveva tenuto un violento discorso contro chi non condivideva il suo pensiero. Sul letto di morte aveva dettato quelle che poi divennero le pagine de ‘Il mio messaggio’, una sorta di diario-testamento in cui Evita esortava “il sacro fuoco del fanatismo” per “combattere l’oligarchia” e “contro quegli imbecilli che chiedevano prudenza”, ovvero i “nemici del popolo” “insensibili e ripugnanti” e “freddi come rospi e serpenti”. Non solo. La Madonna dei descamisados, poco prima di morire, aveva ordinato al Principe Bernhard d’Olanda all’insaputa del marito, ben 5000 pistole automatiche e 1500 mitragliatrici per armare i sindacati e creare vere e proprie milizie di lavoratori.

Tanto poteva bastare per infastidire i sostenitori di Peron che non avevano mai amato la moglie e soprattutto la popolarità di cui godeva presso il popolo. Evita, infatti, era capace di smuovere intere masse di lavoratori e lo aveva già dimostrato nel 1945 con le mobilitazioni di piazza per chiedere la liberazione del suo amato. E tanto potrebbe essere stato sufficiente per mettere Juan Peron nella condizione di cercare una soluzione all’atteggiamento sovversivo della moglie che avrebbe potuto costargli caro politicamente. Una soluzione chiamata lobotomia.

Non è tutto. A far propendere per una sorta di ‘soluzione finale’ c’è anche la testimonianza di Manena Riquelme, confidente ed infermiera del medico che avrebbe praticato l’intervento (il neurochirurgo James Poppen). La donna, subito dopo la notizia shock di Nijensohn nel 2011, confermò che Evita subì una lobotomia, voluta dal marito dopo diverse ‘prove’ sui prigionieri di Buenos Aires e senza il suo consenso, e in una sala operatoria improvvisata con un servizio di sicurezza molto stretto. La donna, inoltre, rivelò che la first lady uscì viva dall’operazione, ma che subito dopo smise di mangiare e trascorse le ultime settimane in uno stato vegetativo che verosimilmente ne accelerò la morte.

Quasi sicuramente non conosceremo mai la verità. Se a conferma della lobotomia ci sono dei referti medici, sarà invece alquanto difficile smentire o meno il fine politico dell’operazione dal momento che le uniche due persone in grado di farlo (Juan Peron e il dottor Poppen) sono morte e sepolte.

Resta, però, una certezza: Evita resterà per sempre nei cuori del popolo argentino e continuerà ad ispirarlo e a spronarlo a combattere. Non a caso Tim Rice, nel brano ‘Your little body’s slowly breaking down’ dell’omonimo musical, alla first lady consapevole che sta morendo fa dire queste parole: “Anche i brutti periodi passano, certi giorni sto bene altri sono più difficili, ma ciò non vuol dire che dobbiamo abbandonare il nostro sogno. Mi hai mai vista sconfitta? Non dimenticare cosa ho passato e sono ancora qui”.

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