Goliarda Sapienza, la scrittrice in cerca di se stessa che ha ripulito le parole dalla muffa della tradizione

by Michela Conoscitore

Goliarda Sapienza è un mistero che tutto il mondo culturale italiano non si è interessato a svelare, quando lei era in vita. A partire da quel nome, così bizzarro, da alcuni considerato un nom de plume comico, pensato per attirare l’attenzione. Forse è stato proprio questo l’autoinganno in cui molti sono caduti, pensare che Goliarda fosse in cerca di attenzioni. Lei, invece, era solo in cerca di sé stessa.

Nel suo percorso di vita, intenso e sfaccettato, la scrittrice riuscì a pacificarsi con gli infiniti scenari del proprio mondo interiore specchiandosi nel mare di Gaeta: è lì che morì, nel 1996, ed è lì che riposa. Goliarda fu seppellita nella terra, e anche da quella terra stava per essere sfrattata, una storia che si è sempre ripetuta nel corso della sua esistenza, per essere trasferita nell’ossario comune del cimitero gaetano. Se non fosse stato per l’interessamento di alcuni suoi amici e autorità del posto che nel 2006, finalmente, le tributarono un riconoscimento, sottraendola all’oblio e donandole un posto tutto per sé.

San Berillo, uno dei quartieri più malfamati di Catania, la accolse quando venne al mondo nel 1924. I genitori, una condizione la loro inusuale e socialmente inaccettabile, non erano sposati. Il padre era l’avvocato Giuseppe Sapienza, uomo di cultura con tre figli da una precedente unione, la madre, Maria Giudice, era una sindacalista di Pavia, si trasferì a Catania per aiutare i contadini a sconfiggere i soprusi della mafia nelle campagne. Maria aveva sette figli, col compagno morto durante la Prima Guerra Mondiale. I genitori, anarchici e liberi intellettualmente, crebbero i figli nella convinta asserzione di dover pensare innanzitutto alla felicità, ad inseguire le proprie inclinazioni e a non tenere in conto le regole sociali, quelle che tutti seguivano. In un mondo che stava cambiando radicalmente e con l’avvento del fascismo che mirava a trasformare tutti in automi, la giovane Goliarda non andò a scuola, imparando dalla strada e dai genitori.

Scoprì presto la passione per la recitazione, e provò a coltivarla fin da bambina spinta anche dal padre, amante del teatro, e dai pupari di strada catanesi che le svelarono alcuni segreti:

Leggevo tutto il giorno, […] leggevo e imparavo a memoria tutti i lavori teatrali che trovavo per casa. La notte poi li recitavo da sola facendone tutte le parti, come i pupari. Il commendatore Insanguine mi aveva detto che, solo facendo tutte le parti come il puparo, si imparava a conoscere i personaggi diversi da noi. Imitando le loro voci, ora da uomo ora da donna, ora del vile ora del valoroso, si diventava attori veri.”

Quando la famiglia si trasferì a Roma, a sedici anni, con l’appoggio del padre, la futura scrittrice provò l’esame di ammissione all’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’Amico: fu accettata, ma i docenti la tennero per lungo tempo sotto osservazione, per via di quell’accento siciliano troppo marcato, che la fece sentire sempre temporanea e fuori posto. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Goliarda non rimase a guardare, si arruolò nella Resistenza, guadagnandosi sul campo il grado di sottotenente.

Al termine del conflitto, non essendosi mai sentita completamente accettata alla D’Amico, decise di abbandonare l’Accademia e iniziare a recitare, complice anche la conoscenza con il regista Francesco ‘Citto’ Maselli. A Citto non fu legata solo artisticamente ma anche passionalmente, lo riteneva, con la madre, una delle persone più importanti della sua vita. I due, oltre ad andare a convivere insieme, senza sposarsi, poiché seguirono il consiglio di mamma Maria (“Non sposatevi, almeno fin quando non verrà approvato il divorzio”), furono degli instancabili cinematografari, come si ribattezzò tempo dopo Goliarda. Ripeteva sempre che aveva imparato più dal cinema che da cento università. E fu grazie a Citto che iniziò scrivere. Goliarda non riuscì ad accettare la morte della madre, avvenuta nel 1953, che le provocò uno scompenso emotivo, dissestandola dentro e portandola a ben tre tentativi di suicidio, il primo nel 1962. Ricoverata d’urgenza e sottoposta all’elettrochoc, Goliarda uscì fuori da quell’esperienza ancora più devastata, da qui la decisione di iniziare un percorso psicanalitico raccontato, poi, in uno dei suoi libri più celebri e recentemente ripubblicato, Il filo di mezzogiorno. La scrittura, quindi, come terapia: scrisse poesie, la prima dedicata alla madre, e poco dopo la fine della relazione con Maselli, pubblicò Lettera Aperta che, nel 1967, fu candidato al Premio Strega. Da quel momento comprese di essere una scrittrice, archiviando la sua carriera di attrice, relegando al passato gli sforzi per esserlo e il culmine di essa, rappresentato dalla parte in Senso di Luchino Visconti.

In un lampo capii che cosa era quello che chiamano destino: una volontà inconsapevole di continuare quella che per anni ci hanno insinuato, imposto, ripetuto essere la sola giusta strada da seguire.

Goliarda non si voltò indietro, proseguì ferma e convinta della sua decisione, scrivere sarebbe stata la sua professione per la vita, e di quello avrebbe vissuto. Per vivere, però, Goliarda non intendeva le mere questioni pragmatiche, come il sostenersi economicamente, per lei scrivere era cibo per l’anima, l’unico modo possibile per conoscere sé stessa e il mondo, gli altri, per cui nutriva una fame atavica. Ed è per questo che dal 1969 al 1976 si dedicò alla stesura della sua opera più importante, L’Arte della Gioia: in questo periodo scoprì Gaeta, che scelse come suo buen retiro e si rinchiuse nella villetta che affittò, a scrivere quello che è si un romanzo, il romanzo di una vita, ma anche la sua definitiva dichiarazione di poetica:

Ma non preoccupatevi. Non starò a raccontarvi passo per passo la lotta che ognuno conosce per dimenticare. Soffrii esattamente come tutti. Ma l’amore non è assoluto e nemmeno eterno, e non c’è solo amore fra uomo e donna, possibilmente consacrato. Si poteva amare un uomo, una donna, un albero e forse anche un asino, come dice Shakespeare. Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali. E poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione.

Goliarda racconta ne L’Arte della Gioia la vita di Modesta, un suo alter ego, una donna libera e decisa a scandalizzare, pur di non rinunciare alla sua indipendenza: ama uomini, donne, tradisce, ha figli, la vita del suo personaggio più amato sembra camminare in equilibrio su un filo sospeso nel vuoto, dove il vuoto è sempre rappresentato dai benpensanti e dalla società dell’epoca, quella che si attaccava con tutte le sue forze alla tranquilla noia borghese. La scrittrice provò a far pubblicare il libro, ma ricevette solo rifiuti e così quel romanzo, la cui scrittura l’aveva ridotta in povertà, rimase chiuso in un cassetto fino al 2005 quando un editor francese scoprì una copia fatta stampare dal secondo marito della scrittrice, lo scrittore e attore Angelo Pellegrino, ed entusiasta lo fece pubblicare in Francia. L’Arte della Gioia divenne un best seller, e l’eco del successo transalpino giunse in Italia, tanto da spingere la casa editrice Einaudi, nel 2008, a pubblicarlo, finalmente, insieme alle altre opere di Goliarda.

In vita, la scrittrice potette solo arrancare, sostenuta da pochi amici. Presa da un momento di follia e volendo sperimentare un detto famoso della madre, nel 1980 rubò dei gioielli ad un’amica: lasciò numerose tracce, che immediatamente ricondussero a lei; fu incarcerata a Rebibbia, e l’esperienza caldeggiata da Maria Giudice, anche lei spesso rinchiusa in carcere per le sue lotte, era quella di conoscere il proprio paese attraverso le prigioni, gli ospedali e i manicomi. Se per molti tale affermazione assume contorni inverosimili, per Goliarda fu l’ennesima conferma della genialità controcorrente della madre:

Sconosciuto pianeta che pure gira in un’orbita vicinissima alla nostra città. Di questo pianeta tutti pensano di sapere tutto esattamente come la Luna senza esserci mai stati. Perché chi ha avuto la ventura di andarci, appena fuori si vergogna e ne tace o, chi non se ne vergogna s’ostina a considerarla una sventura da dimenticare. (…) sono da così poco sfuggita all’immensa colonia penale che vige fuori, ergastolo sociale distribuito nelle rigide sezioni delle professioni, del ceto, dell’età, che questo improvviso poter essere insieme – cittadine di tutti gli stati sociali, cultura, nazionalità – non può non apparirmi una libertà pazzesca, impensata.

Sull’esperienza illuminante del carcere, Goliarda scrisse L’università di Rebibbia, affermando che “in passato qualcuno decise di sciacquare i propri panni in Arno, io a Rebibbia”: ne uscì trasformata, vivificata, rinnovata per altre esperienze. Nel 1992, la regista Lina Wertmuller la volle come docente al Centro Sperimentale di Cinematografia, ruolo in cui Goliarda si buttò a capofitto e con grande entusiasmo, forte anche dell’ammirazione che Wertmuller le dimostrò verso il suo passato da attrice.

Iuzza, così la chiamavano in famiglia, non ha mai avuto rimpianti, piuttosto ha provato instancabilmente a superare le strade battute, le frasi già dette, i sentimenti usurati e quelli messi a tacere, producendone ex novo di altri alla luce delle sue scoperte. Lei ha provato a vivere, e da donna libera ci è riuscita.

No, non sono una donna che si guadagna la vita, sono una donna che guarda dalla finestra e ha una camera per sé stessa. Vi ripugna? Sono libera e questa libertà la voglio far fruttare.(…) Ho fatto bene a rubare, sempre, la mia parte di gioia a tutto e tutti.

Goliarda Sapienza

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