Il Cinquecento di Gaspara Stampa e il canzoniere d’arte e d’amore di una letterata che piange, arde e sospira

by Michela Conoscitore

Nel migliore dei casi la donna scrittrice è dimenticata, usanza ricorrente in letteratura. Oppure peggio, travisata, attribuendole ruoli e accadimenti che la rendono deprecabile. Una di esse, portandosi addosso questa fama, è stata considerata fino a pochi anni fa una lettura proibita. La gogna del tempo, che riporta prettamente una firma maschile, non le riconobbe meriti o primati principalmente perché nel Cinquecento una donna libera di studiare, amare e scrivere, s’equiparava ad un fenomeno sicuramente fuorviante per le giovani menti degli scolari. Quindi, cosa fare? Sottostimare, ridimensionare, sfocare nell’indistinto il percorso, letterario e di vita, di una delle poetesse più capaci della nostra letteratura: Gaspara Stampa.

La tara che pesava su Gaspara, quella di donna indipendente, le fu tolta definitivamente tra Ottocento e Novecento, ad onor del vero da due uomini. Probabilmente più appassionati, più aperti rispetto a chi li aveva preceduti, riconoscendo alla scrittrice veneta il posto che merita nella storia della letteratura. Il primo fu il critico Benedetto Croce che nelle sue riflessioni filologiche, riabilita l’opera di Gaspara:

Il canzoniere di Gaspara Stampa non attirò l’attenzione dei contemporanei, troppo letterati per gustare quelle disadorne rime, e poco sensibili alla commossa realtà umana; rimase obliato per circa due secoli, quando fu ridato in luce per la storica vanità dei discendenti di quel feudatario veneto che ella aveva amato ed esaltato nei suoi versi; e, in questa ricomparsa, venne collocato in luce alquanto falsa. E diversamente falsa fu anche la luce che vi riverberò la critica romantica o romanticheggiante, disposta a vedersi raffigurata la vergine illusa, ingannata, tradita e morta dallo schianto. Ma ora che si può leggerlo senza preconcetti sentimentalistici e moralistici, aiutati altresì dalle indagini degli eruditi su quei circoli della società veneziana nei quali Gaspara visse la sua calda e rapida vita d’arte e di amore, ha ripreso le genuine sembianze e piace in quello che vuol essere ed è: non già alta poesia, ma, come si è detto, un epistolario o un diario d’amore.

Croce definisce la sua poesia schietta e sincera, scevra da imitazioni e freddezza proprie del petrarchismo, allora dominante. Gaspara scriveva col cuore, e fu ciò ad attirare, appassionatamente, un altro grande della letteratura, Gabriele D’Annunzio. Il Vate, spericolato e illimitatamente innamorato della joie de vivre, rivide se stesso in Gaspara quando lesse: “Viver ardendo e non sentire il male!”. La poetessa si prefigurò a D’Annunzio come una delle sue eroine, antesignana e quasi un proprio alter ego. Ma come si spiega questa tendenza emozionale così estrema in una donna del Cinquecento? Per comprenderlo, è necessario conoscere Gaspara e la sua famiglia.

Gaspara Stampa nacque a Padova tra il 1523 e il 1525 da Bartolomeo e Cecilia. La famiglia era di antica stirpe nobile milanese, ormai decaduta, e il capofamiglia manteneva assai bene moglie e i tre figli, oltre a Gaspara la sorella Cassandra e il fratello Baldassare, con il suo lavoro di commerciante di gioielli. Tanto che i rampolli di casa Stampa ricevettero un’istruzione esclusiva, impartita loro da un precettore privato, il toscano Fortunio Spira, amico dell’Aretino e di altri letterati dell’epoca. Latino, greco, musica, arti, retorica e grammatica, l’educazione di Gaspara per i tempi e per essere una donna, fu all’avanguardia. A soli sette anni, tuttavia, perse prematuramente il padre. La madre Cecilia non si perse d’animo, decise di ritornare nella sua città natale, Venezia, e di proseguire ad educare i suoi figli come avevano stabilito col marito.

Ben presto, il salotto veneziano di casa Stampa divenne un ritrovo di intellettuali in cui rifulgeva il carisma di Gaspara: suonatrice di liuto, acculturata, nobile nel portamento e naturalmente dotata di grazia, la donna divenne croce e delizia di molti uomini che la conobbero all’epoca. Numerose furono le richieste di matrimonio avanzate alla madre, ma anche in questo Gaspara fu lasciata libera di esprimersi, e la sua risposta fu sempre la stessa: no. Questa sua indipendenza fu interpretata dai posteri in altro modo, perché la Venezia del Cinquecento la si poteva definire l’ombelico del mondo moderno: economicamente imperante, artisticamente imbattibile, rigogliosa in cultura e salotti letterari, ‘fomentava’ le donne ad essere libere, legittimando anche la prostituzione. Gaspara, quindi, fu additata come una moderna escort, una geisha che riceveva nel salotto della madre e proseguiva le sue relazioni altrove. La città dei Dogi, comunque, avendo legalizzato tale professione possedeva anche una sorta di albo delle libere professioniste. Ritrovato e scorso, il nome di Gaspara non vi compare. Infatti, com’è riportato nel testamento della sorella Cassandra, Gaspara ad un certo punto si sposò con Andrea Gritti, dal quale ebbe due figlie, Sulpizia ed Elisabetta.

Il destino, nuovamente, si accanì con la famiglia Stampa: nel 1544 morirono sia il marito di Gaspara, Andrea, che il fratello diciannovenne Baldassarre, a Padova dove studiava giurisprudenza. Gaspara fu colpita duramente da così gravi perdite tanto da farle meditare di prendere i voti. A questo periodo risale l’epistolario con suor Paola Antonia, monaca milanese che la mise in guardia dalle insidie per una donna sola in una città come Venezia:

Non credete agli adulatori, a quelli che vi amano secondo la carne; non vi ingannate, vi prego. Stroncate da voi quelle pratiche e conversazioni che vi alienano da Christo e mettonvi in pericolo. O possono dare nota di suspicione a quella bella onestà che in voi riluce.

Le buone pratiche religiose non fecero presa su Gaspara che, superato il momento di dolore, decise di tornare alla vita culturale, una dimensione a lei più confacente. Ricominciò a frequentare i salotti letterari della città e in quello di Domenico Venier, a venticinque anni, conobbe il conte Collaltino di Collalto, signore della Marca trevigiana, uomo d’armi e modesto poeta, ma lui tale non si considerava ovviamente, apprezzato anche da alcuni letterati coevi.

Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,

miri un signor di vago e dolce aspetto,

giovane d’anni e vecchio d’intelletto,

imagin de la gloria e del valore:

di pelo biondo, e di vivo colore,

di persona alta e spazioso petto,

e finalmente in ogni opra perfetto,

fuor ch’un poco (oimè lassa! ) empio in amore.

E chi vuol poi conoscer me, rimiri

una donna in effetti ed in sembiante

imagin de la morte e dè martiri,

un albergo di fé salda e costante,

una, che, perché pianga, arda e sospiri,

non fa pietoso il suo crudel amante.

Rime

Gaspara se ne innamorò perdutamente, Collaltino ricambiava tiepidamente, considerando la donna uno spasso momentaneo. Gli incontri fugaci lasciavano spazio, poi, a lunghe assenze quando il conte tornava ai suoi possedimenti o era impegnato in battaglie all’estero. Gaspara si struggeva, la sua vita non aveva senso se l’amato non le era a fianco. La donna riversò il tormento d’amore nei versi, dando vita ad un canzoniere che consta di ben 311 componimenti: sonetti, madrigali che sotto forma di poesie altro non sono che un diario in cui Gaspara racconta se stessa, analizzando la sua relazione amorosa.

Una inaudita e nova crudeltate,

un esser al fuggir pronto e leggiero,

un andar troppo di sue doti altero,

un tôrre ad altri la sua libertate,

un vedermi penar senza pietate,

un aver sempre a’ miei danni il pensiero,

un rider di mia morte quando pèro,

un aver voglie ognor fredde e gelate,

un eterno timor di lontananza,

un verno eterno senza primavera,

un non dar giamai cibo a la speranza

m’han fatto divenir una Chimera,

uno abisso confuso, un mar, ch’avanza

d’onde e tempeste una marina vera.

Rime

La scrittura, si sa, è terapeutica e così Gaspara riconobbe la forza di saper amare, condannando ad una damnatio memoriae eterna, come solo la letteratura sa essere, Collaltino reo del cosiddetto ghosting, come direbbero i contemporanei, una pratica come si vede in voga già da secoli. Lo sfuggente Collaltino decise di scaricare definitivamente la poetessa quando sposò una candidata più adatta al suo cuore arido e calcolatore, tale Giulia Torelli, nobile e più giovane di Gaspara. Già logorata dalla volubilità di Collaltino, la poetessa non rimase a piangere sulle macerie di quell’amore ma preferì innamorarsi di nuovo. Bartolomeo Zen è colui che la rese felice, e che presentò ai suoi lettori nelle Rime con un acrostico, “Ben si convien, signor, che l’aureo dardo”.

Al centro della vita culturale veneziana, Gaspara si pensa sia entrata a far parte da letterata nell’Accademia dei Dubbiosi e quella degli Infiammati, dove conobbe altri scrittori tra cui Sperone Speroni. Per una febbre di misteriosa origine e un male intestinale, la poetessa morì a Venezia a soli trentuno anni. Lei lasciò ai posteri il suo canzoniere pubblicato, pochi mesi dopo la prematura scomparsa, dalla sorella Cassandra. Addirittura, nel Settecento, un discendente del conte Collaltino si arrogò il diritto di ripubblicare le Rime fornendo un identikit della donna come amante lacrimosa e pedante per via della relazione con l’avo.

Ci pensarono Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio, alcuni secoli dopo, a incoronare l’esperienza poetica di Gaspara Stampa, riabilitandola e donandole fama, quella dovuta non per l’amore rinnegato ma per quello donato.

Piangete, donne, e con voi pianga Amore,

poi che non piange lui, che m’ha ferita

sì, che l’alma farà tosto partita

da questo corpo tormentato fuore.

E se mai da pietoso e gentil core

l’estrema voce altrui fu essaudita,

dapoi ch’io sarò morta e sepelita,

scrivete la cagion del mio dolore:

«Per amar molto ed esser poco amata

visse e morì infelice, ed or qui giace

la più fidel amante che sia stata.

Pregale, viator, riposo e pace,

ed impara da lei, sì mal trattata,

a non seguir un cor crudo e fugace»

Rime

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