La pittrice Juana Romani, la petite italienne che con la sua idea di donna passò dal Salon al manicomio

by Michela Conoscitore

Un destino, quello della pittrice Juana Romani, che ricorda la sorte toccata anche ad un’altra grande dell’epoca, Camille Claudel: entrambe terminarono i loro giorni rinchiuse in una casa di salute mentale, sole e dimenticate da tutti. Eppure, da donne, avevano lasciato una forte impronta del loro passaggio nel mondo artistico del tempo. Ma appunto erano donne, una tara di cui da sempre è pesante liberarsi, nonostante il talento. In un mondo di uomini, le manette del loro sesso le costrinsero, senza diritto di replica, alla dimenticanza.

La vicenda di Juana Romani cominciò in Italia. All’indomani dell’unificazione del Paese con i Savoia, nella laziale valle del Comino si originò una grave crisi economica che portò inevitabilmente parte della popolazione ad emigrare. I nonni di Juana scelsero Velletri, alle porte di Roma, dove si stabilirono con le due figlie, Manuela e Loreta. La madre di Juana, Manuela, sposò nel 1867 Giacinto Carlesimo; poco più tardi, nell’aprile dello stesso anno nacque Giovanna Carolina, la futura pittrice. Inizialmente, la vita pareva sorridere alla giovane famiglia ma, Giacinto iniziò a nutrire simpatie per i briganti, si sentiva legato a loro da ideologie condivise. Da lì alla decisione di unirsi al brigantaggio il passo fu breve: il padre di Giovanna scomparve, lasciando la moglie e la figlia nell’indigenza. Manuela, dovendo sostentare da sola la piccola, decise di rivolgersi alla ricca e nobile famiglia Romani che la accolse tra il loro personale di servizio. Accadde che Manuela si innamorò di uno dei figli dei Romani, Temistocle, e ne divenne l’amante.

Ben presto, la famiglia Romani venne a conoscenza della relazione e non poté permettere che uno dei suoi rampolli sposasse una plebea, per giunta moglie di un brigante. In seguito, varie circostanze portarono alla divisione dei beni della famiglia di Temistocle e alla disgregazione del ceppo nobiliare. Così dopo la morte misteriosa di Giacinto, Manuela e Temistocle con la piccola Giovanna decisero di trasferirsi a Parigi, nel 1877. La scelta cadde su quella città non a caso, perché nella Ville Lumiere si era creata una vera e propria comunità proveniente, come la coppia, dai paesi della valle del Comino. Quindi, una volta giunta a destinazione, la famiglia ricevette aiuto e supporto dai propri compaesani, ambientandosi velocemente.

La Parigi di allora era una città in profonda trasformazione: il barone Haussmann ne aveva già iniziato a rivoluzionare l’assetto urbanistico, proiettandola verso il futuro. Inoltre, c’era tanto fermento artistico, tutti i grandi sperimentatori si davano appuntamento lì per generare nuove ed innovative opere. Difatti la piccola comunità della valle del Comino, ubicata a Montparnasse, si sostentava proprio grazie a pittori e scultori per cui posavano come modelli. Temistocle, musicista, fu chiamato in vari caffè per esibirsi, Manuela ricominciò a lavorare come sarta, occupazione che aveva abbandonato per lavorare presso i Romani, e Giovanna, nel frattempo, era cresciuta ed anche lei volle contribuire alle spese, cominciando a posare a quattordici anni proprio per gli artisti più affermati dell’epoca. Ciononostante, l’eredità di Temistocle le assicurò anche una buona istruzione.

Molto richiesta come modella per la sua bravura e amabilità, Giovanna che da allora in poi si farà chiamare Juana, posò per i pittori Alexandre Falguière, Louis-Joseph-Raphaël Collin, Jean-Jacques Henner che la ritrasse nel bellissimo La liseuse, e Ferdinand Roybet del quale divenne musa e compagna di vita. Juana respirò fin da subito l’odore dei colori ad olio e imparò a conoscere le dinamiche di un mondo dominato principalmente da uomini. Diciannovenne, senza lasciarsi intimorire, decise di abbandonare l’attività di modella per diventare essa stessa pittrice: negli anni in cui aveva posato, aveva anche appreso l’arte della pittura, frequentando la celebre Academie Colarossi di Parigi, dove probabilmente conobbe la collega Claudel.

La donna non abdica all’artista, al contrario la sua arte sarebbe piuttosto fatta di un femminismo esagerato. La Fontaine si era ben chiesto cosa avrebbero dipinto i leoni se avessero saputo dipingere. Ebbene, immagino che se le grandi incantatrici Dalila, Giuditta, Lucrezia avessero saputo dipingere avrebbero tracciato queste immagini allo stesso tempo fiere e deliziose come ha fatto Juana Romani, e nelle quali mi è sempre sembrato che ci fosse molto di sé stessa.

  • Paul Armand Silvestre, scrittore, su Juana Romani

Le opere di Juana ritraggono prevalentemente soggetti femminili, dalle signore dell’alta società parigina alle protagoniste della storia e della mitologia, come se almeno attraverso la sua arte desse alle donne un posto di primo piano nel mondo. La petite italienne accumulò sempre più estimatori nella Parigi di fin de siecle, tanto da essere paragonata al compagno Roybet e leggere sul quotidiano Le Monde che dipingeva molto meglio di lui. Juana nelle sue opere affrontò anche la questione di genere, come nei dipinti Mina da Fiesole (1899) e Tizianella (1902), femminilizzando due grandi colleghi del passato, ritraendoli da donna. Una riflessione arguta la sua, che tradotta in pennellate equivale a chiedere: se questi due artisti fossero stati donne, avrebbero comunque raggiunto gli stessi risultati?

Intanto Juana continuava a collezionare successi, partecipò a numerosi Salon ed Esposizioni Universali, dove nel 1889 vinse la medaglia d’argento. Con il compagno Roybet furono la coppia più trendy e celebre di Parigi per più di dieci anni: entrò in contatto con le personalità culturali più in vista di allora come Giovanni Boldini e Antoine Lumiere, padre dei futuri cineasti. Tuttavia, la pittrice non aveva dimenticato l’Italia, anzi il suo rammarico più grande fu quello di essere pressoché una sconosciuta in patria. Nel 1901 si recò in visita nella sua Velletri, acclamata dai concittadini e dalle autorità come una celebrità. Dopo un ricevimento in suo onore e la promessa dell’istituzione di un museo in città, Juana tornò a Parigi.

Nel 1903, all’acme della carriera, Juana a soli trentasei anni cominciò a soffrire di turbe psichiche. Insieme al compagno cominciò un pellegrinaggio in varie case di cura per riposarsi e alleviare i sintomi, ma fu tutto inutile: le crisi si succedevano sempre più frequentemente, e sempre più violente. Nell’aprile del 1906, d’accordo con la madre Manuela e Roybet, viene internata per la prima volta nella casa di cura di Ivry sur Seine per “psicosi allucinatoria cronica e delirio con manie di persecuzione”.

Nonostante la perdita della madre, avvenuta nel 1909, Juana sembrò pian piano riprendersi tanto da ricominciare a dipingere, nel 1913, supportata dal compagno Roybet. Purtroppo, la pace durò poco: lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la morte, nel 1920, dell’amato Ferdinand condannarono Juana alla morte, che la colse sola ed indigente in un manicomio, nel 1923.

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