La tragica storia della contessa Giulia Trigona D’Elia

by Carmine de Leo

Dopo l’Unità d’Italia, per la pronta adesione alla causa nazionale, unica città dell’ex Regno delle Due Sicilie, Foggia fu premiata dal governo con l’intestazione nel 1864 di un nuovo Reggimento, il Lancieri di Foggia, che mutò poi il suo nome in Cavalleggeri di Foggia.

Il Municipio di Foggia donò a questo Reggimento lo stendardo con lo stemma della città, le tre fiammelle sull’acqua e nel 1866, in occasione della valorosa carica del 4° squadrone dei Lancieri di Foggia che durante la  terza guerra d’indipendenza mise in fuga a Gazoldo la cavalleria austro-ungarica e catturò ben 40 prigionieri, fece coniare anche una medaglia d’argento per i lancieri che si erano distinti in questo fatto d’arme.

L’affezione della città per questo reggimento che portava, onorandolo, il suo nome, era quindi realmente tanta e questi cavalleggeri erano conosciuti un po’ in tutta la penisola italiana.

Peraltro, molti dei militari componenti il reggimento facevano parte della nobiltà italiana del tempo, come, nei primi anni del Novecento, anche un ufficiale, il tenente  siciliano, barone Vincenzo Paternò del Cugno, che si rese responsabile nel 1911 di un efferato assassinio.

Lo scandalo provocato da questo crudele omicidio fu enorme e ne parlò tutta la stampa nazionale ed anche quella estera.

Protagonisti di questo terribile episodio criminale furono il tenente Vincenzo Paternò del Cugno e la sua amante del tempo, una nobildonna siciliana, la contessa Giulia Trigona di Sant’Elia, figlia della principessa Giovanna Filangeri di Cutò e del conte Lucio Mastrogiovanni Tasca e zia dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore del noto romanzo il Gattopardo.

La contessa Giulia Trigona di Sant’Elia, donna ricca di denaro e di fascino, molto bella e dama di corte della regina d’Italia Elena, era andata in sposa giovanissima al conte Romualdo Trigona dei principi di Sant’Elia, di cui aveva acquisito il casato.

Ma, come molto spesso succedeva ancora in quegli anni per i matrimoni precoci e combinati finalizzati a conservare ed aumentare i patrimoni nobiliari, dopo alcuni anni d’idillio,  periodo in cui la bella contessa Giulia ebbe anche due figlie femmine, l’unione col marito non andò per il verso giusto.

Infatti, Giulia fu colpita improvvisamente da una lunga malattia e il marito si era procurato un’amante, un’attricetta squattrinata della compagnia di teatro dello Scarpetta.

Rimessasi in salute verso l’estate del 1909, la contessa, risentita per il comportamento del marito, aveva trovato nel tenente dei Cavalleggeri barone Vincenzo Paternò del Cugno il suo ideale amico consolatore, divenuto ben presto appassionato amante della nobildonna in un rapporto segreto che andrà poi avanti per due anni e sarà scoperto dal marito della contessa grazie ad alcune lettere anonime.

Centinaia di appassionate lettere, dopo il sequestro da parte della polizia, consegnate direttamente al ministro dell’interno e da questi al re in persona, furono in gran parte distrutte perché riportavano anche alcuni imbarazzanti pettegolezzi sulla corte dei Savoia.

Dalla lettura delle missive superstiti si evince una passione davvero smodata da parte della contessa Giulia nei confronti del barone Paternò.

Al giovane tenente dei cavalleggeri la contessa si era legata infatti in maniera quasi ossessiva ed in una delle sue lettere a lui indirizzata, scriveva: O delizia dei miei sensi. La tua dolce bocca mi fa impazzire di voluttà! Lascierò tutto per vivere con te!

Un legame morboso. Giulia era disposta ad abbandonare, oltre che il marito fedifrago, anche le sue due figlie da lui avute, pur di passare il resto della sua vita accanto all’amante Vincenzo Paternò.

Al bel tenente dei Cavalleggeri, però,  non interessava tanto il sentimento, ma il ricco patrimonio della contessa, pertanto non era interessato all’abbandono da parte della stessa del tetto coniugale, condizione che di conseguenza avrebbe provocato da parte dei suoi parenti la diseredazione e l’esclusione di Giulia dal suo patrimonio.

Il barone Paternò era un noto seduttore ed aveva già  scialacquato quasi tutto il suo patrimonio di famiglia in corse, giochi d’azzardo e rincorrendo anch’egli attricette e sciantose per tutta la penisola italiana.

La bella ed appassionata contessa, infatti, aveva solo 27 anni quando conobbe il Paternò ed accecata dalla passione per il suo amante, come si appurò poi nel corso  del processo a carico di questo che si trasformerà poi nel suo assassino, era stata costretta anche più volte a pagare di tasca propria i debiti di gioco del tenente ed in un momento in cui i rimorsi e la lucidità si erano fatti strada nella sua mente, consigliata anche dai suoi parenti, decise infine di abbandonare questo amante.

Erano passati ormai due anni di pettegolezzi e di scandali, incontri segreti e passioni consumate in albergucci poco frequentati, tutti sapevano ormai della relazione tra i due amanti, lo scandalo montava di giorno nelle chiacchiere dei salotti mondani di Palermo.

Nello stesso periodo, forse per interessamento dei suoi familiari e per allontanarla dalla Sicilia e dall’amante, Giulia era stata anche richiamata nella capitale, a Roma presso la corte della regina Elena.

L’amante abbandonato, il tenente Paternò non si arrese e, presa subito una licenza, chiese a Giulia un ultimo incontro.

La contessa, come altre donne purtroppo protagoniste anche oggi delle cronache di femminicidio, cedette all’ex compagno ed accettò l’invito per incontralo proprio a Roma  presso un albergo di terz’ordine, il Rebecchino, situato in quel tempo tra la stazione ferroviaria di Termini e Porta Pia.

Questa debolezza costò la vita alla povera Giulia!

La contessa non ebbe la forza di negarsi al tenente ed una volta incontratolo, l’antico morboso sentimento si tradusse in un fugace amplesso col tenente, che subito approfittò  per chiedere altro denaro alla nobildonna.

Giulia si rifiutò di esaudire ulteriori richieste di denaro, anche perché non disponeva più di un vasto patrimonio, in quanto la sua famiglia le aveva stretto i cordoni della borsa ed a quel punto, il Paternò, disperato ed imbestialito, visti sfumare i suoi veri propositi, tirato fuori dalla sua casacca un affilato coltellaccio da caccia, la pugnalò selvaggiamente in più parti del corpo, imbrattando tutta la lingerie della contessa e le lenzuola del letto.

Dopo aver selvaggiamente  infierito sul corpo di Giulia, il tenente tentò poi il suicidio sparandosi con un colpo di pistola alla tempia, era il 2 marzo del 1911.

Il trambusto fece accorrere immediatamente tutta la servitù dell’albergo, qualcuno chiamò la polizia. Gli agenti, giunti sul luogo del delitto, trovarono nella stanza il corpo della contessa, ormai esamine, seminudo, coperto solo da poca lingerie,  steso sul letto ed in un mare di sangue ed il tenente Vincenzo Paternò del Cugno a terra, accanto al letto, gravemente ferito ed ancora vivo, la pallottola, infatti, non lo aveva ucciso!

Il Paternò sopravvivrà al suo efferato delitto e fu condannato all’ergastolo nel 28 giugno del 1912, perché la Corte d’Assise di Roma gli riconobbe la premeditazione, in quando fu appurata la premeditazione del tenente che, prima di recarsi all’incontro con la contessa, aveva acquistato il coltello da caccia con cui poi l’aveva selvaggiamente pugnalata, in un negozio di armi nei pressi la fontana di Trevi, in via dei Crociferi.

Dopo molti anni di reclusione, sarà poi graziato nel 1942, tornato in Sicilia ormai sessantenne, terminerà i suoi anni dimenticato da tutti e sposando infine la sua cameriera.

Ancora oggi, a Roma, presso il Museo criminologico ospitato presso  il Palazzo del Gonfalone, tra l’omonima strada e via Giulia, sono conservati alcuni corpi di reato sequestrati in occasione del processo al tenente Paternò, si tratta, oltre a delle forcine ed una ciocca di capelli della vittima insanguinati, anche del coltello da caccia usato dall’assassino ed uno straccio insanguinato.

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