L’America delle donne: Shirley Jackson, la strega dell’orrore e del mistero, che ha svelato il femminismo alla middle class

by Giammarco Di Biase

“Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà”

Immaginate una casa di divani consunti, stoviglie lasciate per giorni nel lavandino, letti sudici di cicche di sigarette e di bicchieri vuoti, le stanze calate nella penombra, il sole forte sempre quasi spento da tende senza merletti, come veli lasciati lì sulle cose.

Immaginate le porte americane degli anni 50, sempre aperte, la zanzariera che trema ad ogni passaggio di macchine, la maniglia forzata di continuo dalla miriade di gente che come un fantasma infesta giorno e notte una villetta di un quartiere residenziale di provincia. Quelle villette che abbiamo imparato a vedere nei film, passa il ragazzo a lasciare il latte o il giornale ogni mattina.

E’ qui forse che Jack Kerouac, Allan Ginsberg, Burroughs, erano di passaggio tra un loro capolavoro e un altro. Tra un On the road e un Il pasto nudo. E’ qui soprattutto che in quegli anni scriveva e viveva una delle scrittrici più importanti d’America: Shirley Jackson.

Non stiamo parlando ovviamente di villette dove si consumava il nuovo impeto della Beat Generation, nata per i viaggi, nata per gli incontri, nata per la dissolutezza. Stiamo parlando di una donna che ha scritto in piena solitudine, circondata sì da rettori e uomini abbienti, da intellettuali di ogni lega e di ogni genere, ma che della sua letteratura ne ha fatto soprattutto un incontro di demoni interiori, strascichi di una civiltà e di una borghesia e di un buoncostume rilegato nell’ipocrisia e nel perbenismo più smodato. E’ da qui che parte quella che è la sua figura, divorata dalla paura di cedere ad ogni parola, circondata da un grosso calderone di genere, di uomini portatori per forza di cose di sapere, e di donne rinnegate, pronte ad aspettarli a braccia aperte ad ogni loro mirabile traguardo, e a sfamarli tra cene e pranzi succulenti per ogni loro obbiettivo accademico da vincere.

Shirley Jackson è stata scoperta troppo tardi, in Italia, in Europa e in tutto il resto del mondo. Anche quando scriveva, anche quando era prolifica di racconti accolti da giornali di provincia e nazionali, la si stimava poco. Le sue parole attiravano il genere maschile, gli uomini si mettevano alla prova con la sua parola, le donne, tutto fuorché matriarche, facevano congetture, fissate nel ruolo di mogli, su questa personalità esuberante, weird. Calunniavano Shirley e l’allontanavano, profetessa e narratrice dell’orrore e del mistero, sembrava minacciare una femminilità smaccata, che anelava preconcetti e ipocrisie middle class.

La sua letteratura è stata conosciuta troppo tardi in Italia da quando su Netflix è sbarcata quella serie di Mike Flanagan, The Haunting of Hill House. E’ da lì che sono ripartite le ristampe, e da lì che la collana degli Adelphi (che vanta autori come Simenon e Isaac Bashevis Singer) ha iniziato a ripubblicare in versione economica e non le sue opere.

Scrittrice prolifica, è stata raccontata al cinema ultimamente anche dalla regista Josephine Decker, film presentato nella sezione Encounters del Festival di Berlino. E’ da qui che la scrittura di Shirley Jackson sembrava destinata a diventare finalmente famosa, accolta, senza reticenze, in un’epoca che mistifica il concetto di maschilismo, lo mette sottochiave, in ginocchio. Un’epoca differente dalla sua, dove il maschilismo e la figura femminile silenziosamente sottomessa significava anche borghesia, dove il maschilismo e il genere tiravano anche le carte e il loro gioco su temi ancora più importanti, e acerbi, come il razzismo e l’antisemitismo. Tutto era una patina, tutto non si mostrava, ma veniva combattuto nella case, recluso in esigenze familiari che ai tempi si credevano imperanti e più importanti del ricevere sensibilità femminile e risparmiarla alla violenza e all’insensatezza del male.

L’attrice Elisabeth Moss e la sua somiglianza con la scrittrice

Shirley si è sempre ritenuta una strega della letteratura americana. Strega non solo di penna per raccontare con tutta stranezza il lato ambiguo della civiltà e del tempo che viveva ma anche nella lotta femminile intestina che ha intrapreso nella convivenza con il marito, molto attratto dalla femminilità altrui e non da quella spesso ricevuta dalla sua witch casalinga e dedita, almeno all’inizio, ai suoi affari domestici. E’ proprio agli inizi degli anni 50 che Shirley si appresta a scrivere non solo quel racconto che l’ha resa celebre, The Lottery, ma anche di un college estivo a cui dedica il suo libro più disperato e dimesso, fonte di tanta sofferenza per la sua scrittrice. Inizia ad indagare con l’aiuto di un’amica trasferitasi a casa dei coniugi Jackson con suo marito, marchetta universitaria al soldo del marito professore, sulla scomparsa di una ragazza nel libro mai tradotto in Italia The Hangsaman.

E’ proprio in questo periodo specifico che la sua relazione coniugale diventa sempre più schermaglia delle sue debolezze e idiosincrasie. Il marito traditore (il critico letterario, recensore su The New Yorker, e docente universitario Stanley Hyman), la vicinanza con la sua nuova amica ospite in casa ad occuparsi dei servizi, della cena e dei pranzi, anch’essa tradita da suo marito, rampante ragazzo che le da’ da bere qualsiasi cosa, tranne la dura verità nell’essere anche egli poco fedele. Le due donne faranno amicizia, si terranno compagnia, entreranno in quel mondo spiritato della letteratura di Shirley, si terranno la mano.

E’ proprio in questo grande calderone, letteratura e storia intima, che è possibile trovare la verità dentro quel mondo ancestrale che è l’animo della Jackson. Impossibile stilare tutti i riferimenti importanti ed essenziali dei suoi racconti. Racconti che hanno segnato con confidenza tutto l’atteggiamento e la postura degli uomini e delle donne di quel tempo. Non c’è racconto che abbia per protagonista un uomo, raramente anzi, questo accade, se non per qualche figura maschile infantile che ha connaturata nell’animo qualche meschinità. Succede spesso, come ad esempio nel racconto Lo sposo, in inglese The demon Lover, (ballata medievale in nome del diavolo a cui fa spunto grazie al marito che teneva lezioni al college sui riti popolari) che Shirley racconti la storia di una ormai non più giovane donna che non riesce ad avere notizie del futuro marito proprio nel giorno del suo matrimonio. Finirà per cercarlo tra tanti numeri civici senza mai trovarlo per davvero, avendo a conoscenza solo con sicurezza che l’avevano visto camminare verso una casa con un mazzo di crisantemi. C’è sempre dell’inadeguatezza nelle protagoniste della Jackson. Donne che uccidono mariti solo per colpa di un pensiero violento fugace, che fino a cinque minuti prima passavo una semplice vita borghese carica di riluttanze e di noia, sintomo di annichilimento sociale. Donne che non sanno cucinare, e che vogliono imbastire cene solo per far brillare gli occhi del prossimo maschio che entrerà dalla porta della loro casa. Per farsi amare, ma soprattutto farsi accettare, sempre e comunque.

La scrittrice, ormai già consunta dai disturbi alimentari, con i suoi 4 figli

La letteratura di Shirley Jackson non può essere letta senza la filigrana del suo estremo femminismo. Femmine e donne sempre alla ricerca di qualcosa, di se stesse, della propria identità. Ed ecco perché, i suoi due più grandi romanzi, Abbiamo sempre vissuto nel castello e The Haunting of Hill House sono tutti e due entrambi scenograficamente improntati sulla figura del castello.

Il castello come protezione ma anche come incubo assistito quotidianamente da spettri e da turbamenti. Il castello è quella dimensione donna, è la metafora suadente e decadente del femmineo, della propria identità non solo di cittadina posta nel mondo con qualche titolo e con qualche cognome importante, ma della propria identità di donna ferita in balia di una forza più potente, che resta senza pizzi e merletti e bellezza ma che deve fare i conti con zii folli, intrusi ambiziosi e dispotici che vogliono mettere mani sulla proprietà e sui fondi economici famigliari, sul denaro. Allora il castello, luogo chiuso, corpo femminile surrogato, dopo aver rotto le sue serrature, può cadere in rovina se non fosse per il rapporto tra due sorelle, per l’unione sempre delle donne, che conquista, che bissa anche sulla follia e sul presentimento di cadere a pezzi.

Di Shirley Jackson si conosce ancora oggi ben poco, l’ultimo libro di racconti è uscito poche settimane fa, e si chiama La luna di miele di Mrs Smith edito sempre da Adelphi, dove ovviamente un’altra delle tante donne jacksoniane se ne vedrà delle belle con il suo nuovo marito assassino.

Ma Shirley Jackson non è solo una figura hitchcockiana nel profondo, non è solo suspence, attrito tra realtà e onirico, non racconta solo il femmineo ancestrale di cui tutte le donne streghe si fanno carico. Ci dice che le streghe sono soprattutto buone, che le principesse fallite hanno sempre un cuore grande e possono difendersi dal perbenismo della società e rivendicarsi della propria caduta genealogica e individuale, e che il male a volte è solo un oggetto strano per non scendere mai a patti con il demonio, e quindi esorcizzarlo o addirittura come nel primo racconto La sala da fumo della nuova raccolta sconfiggerlo.

“Aprì la valigia sul letto altissimo e, sfilandosi le rigide scarpe da città con un senso di liberazione, cominciò a disfare i bagagli; nei recessi della sua mente c’era la convinzione profondamente femminile che il modo migliore per dar sollievo a una mente turbata è mettersi un paio di scarpe comode”.

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