Maria Fuxa, la poetessa crisalide delle piccole cose, che ha vissuto nella prigione del manicomio una intera esistenza

by Elena Marino

Nei manicomi, nei presidi psichiatrici, si piangeva e si piange spesso di mattina presto. La sera si canta, si ride da perdere le guance, ci si ferisce, si disegnano sul corpo gli amori incestuosi e quelli mai nati. Ma l’alba rosata, alle sbarre, porta con sé l’incrollabile certezza di essere “carcerate”. E non può che scendere giù il triste e chimico pianto. Così in uno splendido scritto ricorda la sua depressione cronica la poetessa Maria Fuxa, che ha vissuto internata per una intera esistenza. «Chianciu già di prima matina», afferma nel suo poetare dialettale siciliano.

Quella di Maria Fuxa è una vita folle e fragile, increspata per sempre dal rapporto competitivo e invidioso tra pari. Tra sorelle gemelle. Una vita per la quale non esiste speranza, non esiste consolazione. Ma solo frustrazione e senso di impotenza per non saper essere, per non voler essere come la propria pari. Come in uno specchio riflesso dell’Io, sdoppiato, tra cielo e Ade.

IL MIO MONDO

Il mio mondo…è un deserto lembo tra incerti barlumi di luci,
è un solitario sentiero sospeso tra silenziosi rami ove si nascondono le mie lacrime…

Il mio mondo…una lunga prigione che attende l’ampio respiro di libera strada,
è bambina che ha sete di una riposante carezza…

Il mio mondo…lo circonda una siepe di cieli spezzati,
frantumi di un sogno che mai qui sarà appagato…

Maria Ermenegilda Fuxa nasce ad Alia, nella provincia di Palermo, in un piccolo centro interno. È il 12 dicembre del 1913 e 15 minuti dopo viene alla luce la sua gemella, Nicoletta Ermelinda.

Le due gemelle avranno sin dalla prima infanzia un rapporto travagliato. Sembra il romanzo di Daniel Sada “Una di due”. Le circostanze creavano un vuoto, a fare da contrappunto a ciò che non erano e non sarebbero mai state. Due donne differenti, due idee stesse di femminilità, due premesse in cerca di unità. Ma l’unità per Maria diventa la follia.

Le due bambine si contendono da subito l’amore della madre Beatrice e del padre Edgard, un insegnante la cui famiglia vantava ascendenze gloriose. I primi Fuxa erano arrivati in Sicilia al seguito di Alfonso I il Magnanimo e tra gli antenati di Edgard c’era anche un garibaldino. Maria è timida, non ha amici. La sorella invece è un vulcano di simpatia e di contatti.

Giunte all’età adulta degli amori, Nicoletta ruba a Maria il suo innamorato. Il fidanzato amatissimo la tradisce con la gemella, che vince la sfida della seduzione. Un evento che porterà Maria a perdere se stessa, la sua entità. La porterà alla follia fino al tentato suicidio.

Arriva la guerra, ma Maria non si riprenderà mai più da quel trauma, dalla felicità che le viene strappata dalla sua pari, la “snaturata”, come la chiama in un componimento.

È la stessa sua natura ad averle fatto del male. Nonostante le letture, le “care rive” dei libri a cui ritorna nella biblioteca di Palermo, Maria ottiene la targhetta di schizofrenica, di depressa. Entra in manicomio, al Pietro Pisani di Palermo e resta reclusa per quasi 50 anni, oltrepassando la legge 180 e tutti i programmi di recupero dedicati ai pazzi e alle pazze.

Tra gli Anni 70 e 80, superata la fase più critica delle cure, Maria trova nella poesia una via di fuga dalla sua realtà confinata tra le mura del manicomio.

La sua prima raccolta uscita nel 1980 si chiama Voce dei senza voce, prendendo a prestito l’allucinazione principe di chi vive dentro.

Non manca di denunciare le atrocità degli ospedali psichiatrici, gli elettroshoc, il contenimento e tutto l’armamentario violento di chi lega ancora oggi la salute ai letti, ai farmaci, alle stringhe.

“La razione quotidiana di pillole colorate dovrebbe riuscire a quietare l’ansia – scrive nell’autobiografia. – Invece di farla sentire se stessa, di darle vigore e dignità, invece di aiutarla a capire cosa è avvenuto nel suo intimo, invece di tentare con lei di capire il senso di tante esperienze, la società ha saputo solo darle una “gabbia”. E ad ogni accenno di ribellione la risposta è sempre unica: medicine…”

Le sue poesie sono ali che valicano i muri della sofferenza psichica, come evidenzia nella sua biografia Maria Teresa Lentini ne La voce della crisalide. Sulla vita della poetessa Maria E. Fuxa ed altre cronache.

“Quando ti accorgi di avere ben poca voce per urlare e distruggere le spesse mura della sofferenza, l’unica cosa che ti resta da fare per sopraffare la mostruosa ombra della solitudine e dell’incomprensione è aggrapparti. Io mi sono aggrappata all’ispirazione del mio animo, la poesia … Mi ha resa felice sapere che l’indifferenza dei volti può essere spezzata con una frase gentile … Non ci tengo ad essere catalogata, la mia poesia segue semplicemente la corrente del cuore”.

Usa spesso il palermitano, per radicarsi alla realtà, all’infanzia, alla felicità quotidiana negata.

La poesia è per Fuxa l’unica forma di vita dopo il dolore immenso procurato da chi le ha strappato ogni motivo per esistere.

Matruzza mia, comu sugnu stanca / prima ancora d’agghiurnari! / Ogni jornu mi susu araciu araciu / quannu li malati ancora dòrminu. / Dòrminu?! Avutru chi dormiri! / semu alluppiati cu li pinnuli… / Tutta la notti, ‘ni stu cammarunni, / quinnici malati: una runfulia, / n’autra si firria smaniannu, / c’è cu chianci comu ‘na canuzza / quannu ci mori lu patruni; / mi sentu sula sulidda / e mi strinciu nica nica / ‘ni stu lettu c’assumigghia / a ‘na cruci di ferru: / di sta vita scunzulata / nun ‘ni pozzu ‘chiù; / sta matina mancu la forza sentu di susirimi / ‘pi cuminciari sempri a stessa vita… / «Susìtivi… susìtivi» grira l’infirmera / «sùbbitu picchì è tardu… susìtivi, susìtivi… » / Lu cammaruni diventa un manicomiu: / cu tira li cuscina, cu strazza li linzola, / cu si scummogghia tutta… / Arrivanu li cati e li vastuna, / portanu li scupi, li pezzi e l’acqua. / «Avanti… avanti… travagghia tu… / pigghia stu catu» Guai se nun si travagghia! / Ci trattanu comu scecchi e comu muli, / comu porci semu arriduciuti! / Ah! casuzza mia bedda e ciavurusa / sciacquata e pulita comu ‘na batìa, / tuttu lu jornu ti chianciu e ti disìu… / Si putissi… si putissi pigghiassi sti vastuna / e rumpissi tutti cosi: li cucchiarazzi fitusi, / li camelli chi pisanu comu lu chiummu… / e ghitassi ‘n terra ddi piattazzi nìvuri / grirannu: «Marilittu stu manicomiu! / basta!… accussì si trattanu li cristiani?! / c’avemu fattu di mali?» / Signuri miu, nun ni pozzu ‘chiù, / chianciu già di prima matina… / stannu megghiu assai li carcirati! Chianciu già di prima matina

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