Maria Zambrano, la filosofa esule, che ha dato ragione poetica al pensiero materno

by Caterina Del Grande

«Vicino alla mia casa, a Madrid, si udivano le sentinelle chiamarsi e rispondersi: ‘Sentinella all’erta! All’erta sto! E io per questo non volevo dormire, perché volevo essere una sentinella della notte, e credo sia proprio questo, l’essere sentinella, l’origine della mia insonnia perpetua»

Maria Zambrano (Malaga 1904 – Madrid 1991), allieva di Ortega y Gasset, ha illuminato la storia del pensiero del ‘900, rimettendo in discussione tutta la filosofia occidentale, a cominciare da Martin Heidegger e Hannah Arendt, irrigidita nel culto della ragione.

Come scrive l’Enciclopedia delle Donne, Maria Zambrano, nata da una famiglia di maestri nella terra assolata dell’Andalusia – terra di incrocio di Ebrei, Arabi, Gitani – , è stata una filosofa nel senso più profondo del termine: era convinta che al mondo non avrebbe potuto fare altro che «vivere pensando» e, occorre aggiungere, “da donna”, cioè guardando le cose «attraverso l’anima».

La filosofa spagnola, che scelse l’esilio per fuggire dalla Spagna franchista, ha maturato una teoria della “ragione poetica”, giungendo ad un linguaggio simbolico, adeguato ad esprimere le leggi del cuore con la loro materna intelligenza amorosa.

Elena Laurenzi la definisce la filosofa dell’aurora, per Maria Zambrano la ricerca di verità assolute, la purezza delle idee, l’immutabilità dei simboli hanno soffocato la sola verità, ossia quella della vita che è mobile e cangiante.

Già nel 1930 Maria Zambrano intravvede il pericolo dell’ottimismo verso un’idea di progresso che ha migliorato le condizioni di vita ma non ha risolto il problema dell’umanità nel cosmo. Intuisce che tale frattura può essere colmata dal “pensiero materno”, in cui la ragione si riempie di tenerezza materna per poter consolare l’uomo in stato di abbandono.

Zambrano non si fa domande sull’Essere, come i coetanei esistenzialisti. Riporta tutto a sé, al suo essere donna. “Chi sono io? Qual è il mio destino”.

La vera conoscenza per Zambrano non è monologo ma dialogo: curiosità amorosa, che non domanda il “come” e neppure il “cosa” ma desidera il “chi”, che sa il nome proprio di ogni uomo, che non dice “Io” ma “Tu”.

Ragione e sentimento, filosofia e poesia sono costantemente oggetto della sua ricerca e pratica di vita, pagata con l’indigenza e l’esilio a Cuba, Messico, Stati Uniti, Parigi. A Roma dove vive quasi 10 anni e viene aiutata da Elena Croce e Cristina Campo.

Ritorna in Spagna solo dopo la morte di Franco, circondata dalla stima e dalla fama e nel 1988 riceve il Premio Cervantes. Nel suo pensiero si fondono amore per la politica, per l’arte, e anche la tensione e la mistica, dando origine ad una ampia produzione di opere che superano la tradizionale divisione per generi. Tra le più importanti vi sono l’autobiografia “Delirio e destino”, Chiari nel bosco, Filosofia e Poesia, Verso un sapere dell’anima, La confessione come genere letterario, All’ombra del Dio sconosciuto e l’opera teatrale La tomba di Antigone”.

Maria Zambrano come Antigone fu espulsa dalla sua polis, in esilio a Parigi, nel 1967 sente la voce di Antigone, sepolta viva, che continua a vivere nella caverna come nel ventre della madre. Perché Zambrano sceglie il teatro? Perché ciò che è indicibile in un linguaggio puramente concettuale, va indicato, mostrato, per mezzo di una rappresentazione dove la visione di figure viventi porta il lettore-spettatore a sostare presso le ombre.

Nel testo di Zambrano la tomba diventa per Antigone una possibilità per ridarsi la vita. In piena rivoluzione culturale, nel 1967, l’Antigone usa il dolore dell’ingiusta condanna per rinascere.

«Io non ho vissuto di idee ma di esperienze. La mia vera vocazione è stata quella di essere, non di essere qualcosa».

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