«Chi acquista prodotti da noi sostiene una filiera e non un singolo». Angelo Santoro e la Cooperativa Semi di Vita, una comunità che cammina e dà dignità alla disabilità

by Antonella Soccio

Angelo Santoro, responsabile della Cooperativa Semi di Vita, che opera con ragazzi fragili in un bene confiscato alla mafia nella terra di Bari, è stato tra i protagonisti del XVI Forum dell’Informazione Cattolica per la Custodia del Creato, tenutosi dal 1° al 3 ottobre nel capoluogo pugliese sul tema “Nessuno si salva da solo. Dalla Laudato si’ alla Fratelli tutti per un nuovo rinascimento sociale ed ecologico”.

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato.

Angelo, il vostro motto è Coltiviamo la dignità: qual è lo sguardo di chi invece crede che la dignità sia nel denaro facile? Cosa è cambiato con il bene confiscato negli occhi degli omertosi?

Lo sguardo è quello di chi è convinto che non ci sia alternativa; che non ci sia una valida alternativa. Ed è quello che noi stiamo, invece, provando a fare. Difficile incontrare gli omertosi in percorsi come quello dei beni confiscati. Spesso si rintanano proprio perché è proprio a quello che l’omertà ti porta: a non esporti. Certo, di contro, da parte nostra c’è l’interesse di una comunità che cammina, che ha bisogno di obiettivi e di poter vedere concretezza.

Quante e quali relazioni avete coltivato in questi anni? Quanti enti e soggetti di partecipazione si sono avvicinati al bene confiscato?

Siamo partiti a Bari da soli, a Valenzano eravamo già insieme a 20 partner: nel tempo le relazioni e le connessioni si sono moltiplicate e rafforzate nel pieno spirito di trasformazione di un bene confiscato in un bene comune. Questa è la vera sfida, curare una ferita come quella che produce un atteggiamento mafioso, una cicatrice che ricordi e dia la spinta a generare buone prassi.

A Japigia avete un orto sociale in mezzo ai palazzi. Un successo doppio, perché oltre a fare agricoltura sociale per soggetti svantaggiati fate risparmiare l’amministrazione nella manutenzione di uno spazio verde. Perché è ancora così difficile far capire alle amministrazioni che l’agricoltura sociale è un’opportunità ricca di benefici plurimi?

Difficile fare comprendere il valore sociale delle azioni: possiamo mettere in campo indici, numeri e altri strumenti che possono aiutarci, ma in realtà la percezione del benessere apportata da ognuno di noi non ha eguali. La famosa e blasonata rigenerazione urbana è prima di tutto umana. Si coltiva l’uomo e la terra come in agricoltura sociale.

Spesso le esperienze agricole bio e sociali si scontrano con quelle di agricoltura tradizionale e con quelle intensive. C’è la tendenza a dire: vabbè voi potete fare la passata buona, sana e giusta, perché siete finanziati, perché avete Libera, perché la terra non è vostra etc.

È davvero così? Il consumatore è pronto a spendere qualcosa in più per dei beni coltivati come lo fate voi?

A noi tocca un compito arduo: fare un prodotto ottimo, che sia sano non solo di sapori, ma anche di principi. Proprio per questo, oggi chi acquista prodotti da noi sostiene una filiera e non un singolo. Su questo ci giochiamo la reputazione e soprattutto il riacquisto dei prodotti: non si compra la nostra passata per pietismo perché realizzata da un carcerato, ma perché ha tutta una filosofia che tende a migliorare non solo il nostro stomaco, ma il creato che ci circonda. Poi, si, 35.000 bottiglie nel 2021 a 2,80 le compri perché ci credi.

Qual è, infine, l’approccio dei genitori diversamente abili ai vostri percorsi?

All’inizio scettico. Il mondo della disabilità è un mondo pieno di sacrosanti diritti. Quello che cerchiamo di infondere è lo spirito della possibilità: i ragazzi e le ragazze con disabilità, ovviamente chi ha possibilità di lavorare, hanno bisogno di una chance. Hanno bisogno come tutti di dignità attraverso il lavoro e la comunione con gli altri.

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