Ultimo giorno di scuola all’Assori. Fra lavoretti incantevoli, senso di comunità e bambini unici come tutti

by Enrico Ciccarelli

«Chi apre la porta di una scuola chiude una prigione», ha scritto Victor Hugo. Difficile esprimere con maggiore concisione e chiarezza il rapporto silente e profondo esistente fra la scuola e la comunità, tra un’adeguata educazione e formazione di bambine e bambini, ragazze e ragazzi e una costruzione sociale che non sia fatta solo della casuale compresenza di esseri umani che condividono alcuni indirizzi stradali nel reciproco ignorarsi.

Oltretutto, se la scuola non è una scuola qualunque, la loro apertura non chiude solo le prigioni intese come luoghi di pena e di espriazione, ma prigioni assai pià tenaci e afflittive, come quelle della paura e del pregiudizio. Per demolirle non è sufficiente la trasmissione da insegnanti ad allievi di un determinato pacchetto di nozioni e di abilità: serve «il reciproco amore fra chi apprende e chi insegna», quello che secondo Erasmo da Rotterdam «è il primo e più importante gradino verso la conoscenza». L’altra mattina, ultimo giorno dell’anno scolastico, questo reciproco amore permeava di sé ogni angolo delle aule della Scuola Primaria Paritaria dell’Assori.

Per i miei cortesi lettori che non vivono a Foggia, l’Assori è una Onlus (che poi ha assunto più forme per organizzare i suoi molteplici interventi) che opera nella città da quattro decenni, predicando e praticando inclusione nei campi più disparati, dall’attività ginnica e motoria alla musica alla formazione, e naturalmente all’istruzione. Il suo nido, la sua scuola per l’infanzia e la sua scuola primaria sono per molti motivi un’eccellenza, con una dotazione di personale e di professionalità (molte delle quali al lavoro lì da decenni) altamente competitiva sia rispetto alla maggior parte delle scuole pubbliche sia rispetto alle altre scuole private.

L’inclusione che si pratica all’Assori non è caritatevole o filantropica: nei plessi di via Biagi non ci sono bambini colì e bambini colà: solo bambine e bambini unici come tutti, ciascuno dei quali centrale nel progetto educativo condotto dalle maestre e dai maestri, dalle educatrici e dagli educatori e dalla dirigente Sara D’Adderio, una persona che non ci fosse bisognerebbe inventare, tanto è forte e mite la sua passione. Per la fine dell’anno le bambine e i bambini della Scuola Paritaria Assori, come spero facciano tutte le banbine e i bambini del mondo che hanno ancora il diritto di essere bambini, hanno preparato ed esposto i loro «lavoretti».

Sapete, quelle oasi di tenerezza e di incanto che toccherebbero il cuore anche dell’arido Scrooge di Dickens, il personaggio a cui è ispirato Paperon de’ Paperoni? Ecco, quelli. Policromi, polimaterici, assemblati a formare cavalieri e piante e principesse, mappe e castelli, foreste e draghi, realizzati con una perizia, un impegno e una serietà che solo pochi fortunati continuano a possedere dopo gli undici anni. Non nascondo che ho provato un certo imbarazzo nel vedere il magnifico «album» che ragazzine e ragazzini di quarta hanno realizzato su Pablo Picasso, comprensivo di una accuratissima riproduzione in scala di «Guernica», ma nessuno pensa che a queste cose servano primati e graduatorie.

«Se si perdono i ragazzi più difficili, la scuola non è più scuola. É un ospedale che cura i sani e respinge i malati.» ha scritto don Lorenzo Milani, l’indimenticato fondatore della Scuola di Barbiana. Un concetto che si è faticosamente fatto strada nelle nostre scuole dell’obbligo, grazie a Dio (ma come si vede, non mancano i nostalgici della scuola giudicante, escludemte e selettiva). Credo sinceramente che nel dizionario del’Assori, da quello dei fondatori Pia Colabella e Costanzo Mastrangelo a quello della direttrice D’Adderio, delle sue maestre e maestri, delle sue educatrici ed educatori, i verbi «respingere» e «giudicare» non siano proprio inclusi, mentre vi abbiano grande evidenza il verbo «crescere» e l’avverbio «insieme».

Sì, perché la cosa che più mi ha colpito dell’ultimo giorno di scuola dell’Assori è che c’era, come in tutte le scuole, tanta felicità e allegria. E come in tutte le scuole i genitori erano venuti a prendere le loro bambine e i loro bambini. La differenza però è che qui erano dentro, insieme ai loro figli, insieme agli e alle insegnanti, per un arrivederci (per qualcuno un commosso lasciarsi) che riguardava tutti, che celebra un rapporto scuola-famiglia che troppo spesso è altrove conflittuale o gelidamente indifferente. Non è un rapporto che nasce per caso o per automatismo; costa fatica, impone disponibilià, richiede consapevolezza. Ma c’è, insieme a molte altre cose che renderebbero questo articolo troppo lungo. Un piccolo inavvertito miracolo che accade tutti i giorni tra via Biagi e Piazza De Gasperi. E non so dirvi quanto sia bello potervi raccontare di questo nella mia città smarrita e piagata.

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