Fettucce burro e acciughe, umili ma viziose

by Fabrizio Stagnani

Si fa presto a dire burro e acciughe. Già in molti confondono queste ultime con le alici, sia chiaro la bestia è la medesima, tal engraulis encrasicolus, a cambiare è la lavorazione. Si chiamano alici se son fresche, marinate, al massimo fritte, mentre per assurgere al titolo di acciughe tocca che passino il processo di maturazione con la salatura. 

Ora serve fare un altro piccolo passo indietro, siamo giusto nell’ultimo secolo dell’a.C. nell’Impero Romano, quando era consuetudine consumare il garum, pesce salato con le sue interiora. Il primo ad accostare questo corroborante ingrediente, che vien facile commisurare alle acciughe, a del burro fu proprio Giulio Cesare. Infatti a quanto si racconta, [anche su “La Cucina Italiana”, somma fonte più che autorevole], Caligola a Milano, durante un banchetto, assaporò per la prima volta del grasso di latte lavorato, alchè gli venne il prurito di provarlo spalmato su del pane insieme ad un velo di garum, è fu subito un classico, mai più tramontato. Son passati più di duemila anni e questo abbinamento, più che perdere smalto, oggi non è raro trovarlo servito per aperitivo nei dehor dei locali più sciccosi. 

Passato il preambolo, torniamo ad un triste frigo che non si è avuto tempo di rifornire a causa degli affanni della vita quotidiana e ad un grande appetito di un buongustaio che è solito collezionare prodotti alimentari particolari quante buone ricette sa preparare. 

È domenica, soli in casa, la sera prima si è fatto bisboccia sino a tardi e non c’è voglia alcuna di raggiungere il primo desolante ipermercato aperto per recuperare l’ultima fettina incelofanata e un’altrettanto impacchettata e monotona pianta di iceberg dal banco frigo. Quando i primi morsi della fame stringono l’ingegno si fa largo, certo non ci si può ridurre a far “mappazzoni” da fuorisede, serve stile anche nell’arrangiarsi. Nella mente di un sedicente cuoco casalingo, scegliendo tra il poco rimasto di commestibile tra le mura domestiche, gli ingredienti s’illuminano come nella scena di un cartone animato: un vasetto di acciughe, neanche di eccelsa qualità…quelle del cantabrico è meglio consumarle “a crudo” su di un crostino; un tocco di burro accartocciato nella parte di carta rimasta vuota, questo buono, di centrifuga…di panna; pepi tanti nello stipetto delle spezie, ma quale usare? Bianco, quello falso…il rosa, pimento della giamaica, classico nero, di sichuan? No, quello lungo, più intenso, dolce e fruttato; uno spicchio d’aglio, ma per questo toccherà fare un approfondimento a se; del prezzemolo secco, ebbene si, acquistato fresco, poi riuscito a disidratarsi alle torride temperature estive su di un balcone di periferia; e in fine la perla, quel quid che può fare la vera differenza, un “culetto” di bottarga di tonno cautamente conservata nel suo incartamento sul ripiano vicino alle uova. Il piatto è pronto, pasta burro e acciughe deluxe. 

Come si anticipava è necessario affrontare la disquisizione sull’aglio. Perché è da questi aspetti che ci si riesce a rendere conto quanto ci sia di vizioso nella ricerca del gusto, anche se con poco. Sempre se la cosa non offende chi al massimo dell’euforia alimentare si concede un cucchiaino di maionese sulla spinacina decongelata in microonde. Anche qui di agli ce n’è uno e mille, per ogni agro dalle terre in grado di coltivarlo c’è una storia. Rossi, neri, rosa, mille le sfumature possibili, ma lo spicchio rimasto nel cassettino degli “odori” più che colorato è gigantesco, è Golia. E’ originario della Val d’Orcia, solitamente molto costoso, si arriva anche a pagarlo una decina di euro a “testa”, ma a quanto pare dei contadini di Bitritto sono riusciti a piantarlo in Puglia e lo vendono al mercato di Santa Scolastica a prezzi decisamente più abbordabili. La sua caratteristica, oltre ad essere enorme, uno spicchio arriva ad essere cinque o sei volte più grande di quelli ai quali siamo solitamente abituati, è l’essere assolutamente digeribile. Il gusto è lo stesso, magari un po’ meno persistente, ma l’assenza di alcune componenti, come l’allicina, lo rende appetibile anche agli stomaci più difettosi. Arduo a credersi, ma si potrebbe prendere a morsi come una mela, sempre se non si è dei vampiri.

Fuoco ai fornelli, tegame per l’acqua e padella per il condimento. Noce di burro a liquefarsi, tre acciughe a frangersi, poi, senza ritegno e paura alcuna, quattro o cinque fettoni di aglione a rosolare. Due bacche di pepe lungo pestate nel mortaio vanno a condire il composto mentre la fiamma si spegne. Non si è detto della pasta, per noi italiani scegliere quella giusta fra gli oltre trecento tipi esistenti ha del sacrale. Se gli stessi ingredienti, di più alta o bassa qualità, generano sempre un prodotto, è la forma che conferisce la perfetta combinazione con il condimento. Per il “burro e acciughe”, che se ne apra una discussione, meglio la pasta lunga. Ma quale? Sì, uno spaghettino fine, forse per una volta meglio non un bucatino, allora fettucce. Non comunissime da reperire, ma appunto è l’essere vizioso in cucina che fa collezionare prodotti particolari. Un sorta di linguina ma un po’ più spessa e larga. Magnifiche. Sale per l’acqua, un terzo di cottura, e poi come ormai è quasi d’obbligo dire, si risotta la pasta in padella. Per il resto del tempo della sua cottura dichiarata (magari anche un minuto in meno, per gli intenditori), si amalgama a fiamma vivace la pasta e il compenso annettendo di volta in volta quantità di acqua di cottura, sempre restando nella soglia del cremoso, mai brodoso, giammai secco. E’ il calore che stringe il sugo, è la pasta che cede gli amidi a fare la magia. Il timer suona, il fuoco si zittisce, anche per il bene delle bollette inferocite. Giunge il momento di una spolverata di prezzemolo battuto fine. A suon di trasmissioni televisive culinarie ci siamo montati tutti la testa, s’impiatta. Il profumo è esplosivo, il sapido delle acciughe colpisce, l’aglio stuzzica e il dolce del burro avvolge. Non basta, la bottarga ora deve piovere dalla microplane, su google le immagini per chi non sa cosa sia. Il resto è silenzio assoluto, disturbato solo dai rebbi della forchetta che saltuariamente nel loro vorticare solleticano il fondo del piatto. Vengono in mente le parole di un … non ci sono aggettivi per descriverlo a pieno…si prova con incommensurabile amico, vecio parà, Ivan Dell’Innocenti, gastronomo ad honorem, “pezzenti e viosi”. Quasi un ossimoro a indicare che con poco, soprattutto in cucina, a saperlo trattare, si ottengono risultati fantasmagorici. 

A chiusura, per voler andare in contro a chi tutta sta pazienza di stare a ricercare elementi così leziosi non ce l’ha, si dice che con una noce di burro “X”, due alicette qualsiasi e uno spicchietto di aglio da eliminare a fine cottura, un pepe già macinato…pur restando una bestemmia, ed una pasta standard avanzata nello stipo, si può ottenere ugualmente un grandioso risultato. L’importante è volergli bene, prima di trovarsi a mangiarlo. A fare la vera differenza è l’attenzione, la cura, al bene godereccio che ci si vuole regalare.


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