Ebraica, la spirale distruttiva dei personaggi di Stanley Kubrick, spiegata da sua figlia Katharina

by Claudia Pellicano

L’Ebraica Festival, la kermesse di cultura arrivata alla dodicesima edizione, quest’anno parla di spazio, e lo fa ricordando, a vent’anni dalla sua morte, uno dei più grandi maestri del cinema, Stanley Kubrick.

La serata, moderata da Antonio Monda, vede la partecipazione della figlia del regista, Katharina, che, tra una sequenza e l’altra, svela alcuni retroscena dei film e condivide col pubblico le esperienze e il ricordo che ha di suo padre:

«Avevo 4 anni, mia madre e io ci eravamo appena trasferite in California, lui mi mise sulle ginocchia e mi disse “chiamami papà”. Anni dopo – continua divertita – commisi l’errore di chiamarlo “daddy”sul set di Eyes Wide Shut, lui mi prese in disparte e mi disse di non farlo più».
I primi ricordi cinematografici, invece, sono legati a Lolita, agli attori che frequentavano assiduamente la casa del regista, e a Strangelove, dove Katharina ebbe l’occasione di tirare un torta in faccia a un attore.

Il ritratto di Kubrick che emerge da questa serata è quello di un personaggio fuori dagli schemi, un ragazzo di New York che, insofferente all’ambiente di Hollywood, decise di trasferirsi in Inghilterra «perché amava il tempo di lì, e lavorare lì con la troupe». Un artista così attento ai dettagli che, vedendo l’allunaggio nel 1969, e quanto la terra apparisse meravigliosa, si crucciò di non aver indovinato le tonalità giuste nelle sequenze di 2001: Odissea nello spazio. Un amante della musica e delle suggestioni che può suscitare, come accade nel film, in cui l’universo diventa un luogo che si muove a tempo di valzer: «ora i giovani pensano che il Bel Danubio Blu sia una musica da spazio».

Impossibile parlare di Kubrick senza citare Clockwork Orange, la storia della furia umana che può esplodere da un momento all’altro come una bomba a orologeria.
L’incipit cinematografico, degno della migliore letteratura, racchiude, in poche immagini, tutta la creatività di Kubrick. Katharina ricorda di essere stata sul set di Arancia, ma di non aver visto il film fino ai 18 anni, «avevo un padre molto protettivo. Anche se questi film mi sono familiari, anche se è difficile per me separare la finzione dalla vita, me ne sento toccata come chiunque altro. E mi copro ancora gli occhi quando vedo la scena della vasca in Shining».

Per Monda il filo rosso che lega la cinematografia di Kubrick risiede nella spirale distruttiva in cui entrano i personaggi, come in Barry Lyndon,  che racconta l’ascesa e caduta di un cacciatore di dote sullo sfondo di una cultura intrisa di militarismo, e in Orizzonti di gloria, che descrive come pochi altri film le aberrazioni della guerra.
O in Eyes Wide Shut, di cui, pur non essendo riuscito a vedere l’uscita, Kubrick era entusiasta: «Gli studi temevano potesse essere vietato, ma non fu tagliato nulla. La soluzione fu di inserire delle immagini digitali che potessero accontentare la censura americana e placare i timori dei produttori».

Fa un certo effetto sentire la figlia di Kubrick chiamare suo padre “Stanley” per tutta la serata. Forse è un modo per relazionarsi meglio con gli spettatori, o forse continua a seguire la regola di non chiamarlo “daddy” in pubblico, in segno di un’affettuosa obbedienza verso quel papà che le diceva: «trova qualcosa che ami e falla davvero bene».

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