«Fuori i poeti»: ancora un centro per Magna Capitana e Ubik

by Enrico Ciccarelli

La rassegna «Fuori i poeti» si è tenuta tra il 26 e il 28 ottobre a cura della Biblioteca Provinciale «Magna Capitana», sede dell’evento, in collaborazione con Ubik e con il decisivo apporto dei poeti dauni Antonio Bux (leggete il suo blog «Disgrafie», all’indirizzo https://antoniobux.wordpress.com/; mi ringrazierete) e Giuseppe Todisco, curatore della rivista «Avamposto», filiazione cartacea del sito https://www.avampostopoesia.com/.

Gabriella Berardi, che dirige impeccabilmente la struttura di Viale Michelangelo, e le sue ragazze terribili (un vincente manipolo di donne giovani e motivate innamorate di ciò che fanno), a cominciare da Mara Mundi, hanno vinto in bellezza una sfida tutt’altro che scontata. La poesia è forse la più ostica e ardita fra le mirabili articolazioni del potere evocativo della parola, e spazia dalle semplici belle immagini ad uso dei Baci Perugina (a volte anche dalla benedetta ingenuità di chi crede che un verso sia una riga che non arriva al margine) e la forza oracolare ed esorcistica dei canti sapienziali e sciamanici.

Una forma di «espressione dell’ineffabile», dice Berardi; una indispensabile superfluità, un diletto votato ad essere ninnolo o accessorio eppure insostituibile strumento di indagine, conoscenza, condivisione. Non sono più i tempi in cui lo storpio Tirteo, inviato per beffa da Atene, decise con i suoi canti incendiari la guerra degli Spartani; si è impossessata di noi l’idea infondata e intimistica che i carmi abbiano come obbligatoria cornice la solitudine e il raccoglimento, sia quando vengono scritti che quando vengono letti: in realtà poche cose sono più collettive e comunitarie della poesia.

Per questo è gran cosa incontrare i poeti, finché sono vivi: per rompere le certezze degli idolatri, per acquisire insieme all’ineluttabilità dei loro versi (quod scripsi, scripsi) la fragile precarietà da cui quei versi traggono argomento, che è banalmente quella dell’esistere, del vivere, dell’emozionarsi. Non importa se si abbia a che fare con chi –come un D’Annunzio o un Byron– cercò di fare della propria stessa esistenza un poema, o con chi –come Emily Dickinson– compose uno sterminato canzoniere nell’arco di una vita priva di qualsiasi fascino o avventura.

Da questo punto di vista gli ospiti di questa prima edizione (perché è imprescrittibile che ce ne debbano essere altre) sono stati particolarmente ben scelti,  malgrado il forfait di Elena Donzelli abbia scompigliato lo schema della tre giorni. Perché due poeti di vaglia come il napoletano Bruno Galluccio e la milanese Vivian Lamarque sono la plastica dimostrazione che nulla è più lontano dalla poesia della categoria platonica della «poeticità dozzinale», quella che vorrebbe oggetto di sestine, stanze ed endecasillabi soltanto i palpiti e le svenevolezze dell’amore.

Per carità, la rima fiore-amore resta «la più antica difficile del mondo», come dice don Umberto; ma si può far poesia su cose molto più vaste, come fa Bruno Galluccio, fisico di mestiere, che nella sua trilogia «Verticali» «La misura dello zero» e il recente «Camera sul vuoto», versifica sul big bang, la vita di Pitagora di Samo e di Evariste Galois, e l’entanglement quantistico. O su cose assai meno gradevoli, come la pasta adesiva per la dentiera e altri farmaci da terza età come nella deliziosa lirica di Madre d’inverno della Lamarque.

Poeti assai diversi fra loro, accomunati forse da una grande capacità di camuffamento della loro abilità stilistica (la sapienza con cui Galluccio lascia cadere nelle sue poesie quasi prosastiche un improvviso endecasillabo, la potenza gentile delle immagini di Lamarque, come quella che celebra il coraggio del ciclamino. Accomunati anche dalla soave gentilezza con cui offrono i propri componimenti, dal visibile piacere del dialogo e del confronto, non dell’esibizione.

L’epigono di Tito Lucrezio Caro (che sulla scienza scrisse duemila anni fa un portentoso poema) è così cortese da lodare la cortesia e la pulizia che dice di avere incontrato a Foggia, mentre la sorridente Lamarque ci regala l’incantevole aneddoto dello studente che le chiese «Ma che poesie sono le sue, che si capiscono subito?».

Cosa più bella della rassegna? Il fatto che il mitico Michele Trecca, eroe dell’epopea di Ubik ormai prossimo al ritiro, per la prima volta nella sua carriera di libraio, consegni all’autore un libro suo che quello non ha ancora mai visto. «L’amore da vecchia» di Lamarque non è ancora stato ufficialmente presentato, infatti. E lei ne vede una copia per la prima volta in Biblioteca Provinciale. Più «primato foggiano» di così…

Nel video le interviste ai protagonisti della rassegna

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