Terza serata del Bifest: in piazza Prefettura le atmosfere dark di ‘Rose plays Julie’ e al Piccinni l’Olocausto raccontato con la musica in ‘The song of names’

by Luana Martino

Si susseguono i film e gli appuntamenti dell’undicesima edizione del Bif&st – Bari International Film Festival.
Anche la terza giornata del Bif&st è stata ricca di suggestioni, una sorta di richiamo alla tematica dell’amicizia che ritroviamo in molti dei film proiettati ieri. Tra i titoli in programma, infatti, il pubblico ha potuto fruire, ad esempio, de ‘La grande guerra’, pietra miliare della filmografia Monicelliana, che tratteggia in modo sublime un’amicizia nata per caso sotto le armi e divenuta indimenticabile tra due grandi Alberto Sordi e Vittorio Gassmann.

Anche in ‘The song of names’, per la sezione Panorama, tutto ruota intorno all’amicizia che ha come sfondo la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto. Nel film di François Girard (già resista del ‘Il violino rosso’ del 1998) – adattamento cinematografico del pluripremiato romanzo di Norman Lebrecht- si racconta, infatti, di un’amicizia lunga 35 anni che il tempo consolida attraverso una affannosa ricerca di verità. Protagonisti di questo rapporto quasi fraterno sono Tim Roth e Clive Owen (da adulti)che, tra salti temporali e flashback, si perdono e si re-incontrano negli anni.

L’azione inizia nel 1951. Sta per svolgersi un concerto, ma il celebre violinista Dovidl Rapoport non si presenta e scompare lasciando tutti e, in particolar modo il suo migliore amico, Martin Simmons, allibiti e avviliti per la sua scomparsa. La storia passa, quindi, al 1986, Martin, ormai adulto, sta giudicando una competizione musicale a Newcastle, qui un giovane violinista gli riporta alla mente il suo amico Dovidl e il suo geniale approccio alla vita e alla musica. I ricordi scatenati in Martin sono così travolgenti che lo portano a voler scoprire cosa sia successo a Dovidl. Un’ardua missione la sua, tra Varsavia e New York, un viaggio fisico e di memorie inaspettate.

Attraverso questa ricerca, Martin comincia a comprendere il trauma che colpì Dovidl a quell’epoca, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e le tragiche vicissitudini legate ad essa. Questa consapevolezza lo aiuta a capire, finalmente, perché il giovane prodigio non si sia presentato al suo primo concerto tanti anni prima.

L’Olocausto sembra essere usato come scorciatoia per la tragedia, fa da scenario a tutta la vicenda che, però, si concentra sul rapporto interrotto tra i due protagonisti. La pellicola di Girard, se pur commovente e avvolgente, grazie anche alle musiche firmate dal leggendario Howard Shore, qualche volta si perde in un racconto ripiegato su se stesso, risultando, in alcuni punti, un po’ troppo melliflua.  

La giornata di ieri si è conclusa, in piazza Prefettura, con Francesco Frigeri -sul palco per ricevere ilPremio Dante Ferretti per la migliore scenografia per il film Il primo Natale di Ficarra e Picone-  e con Maurizio Braucci che ha ricevuto il Premio Luciano Vincenzoni per la migliore sceneggiatura per Martin Eden di Pietro Marcello.

La ricerca delle proprie radici e delle origini, invece, ha connotato l’anteprima, ‘Rose plays Julie’, di Christine Molloy e Joe Lawlor, proiettata dopo la premiazione.

E’ la storia di Rose, una giovane studentessa, intenzionata a conoscere la verità sui suoi genitori biologici. Così, dopo aver rintracciato la madre, Rose scopre la verità sul suo concepimento e la causa per cui la madre Ellen è stata costretta a rifiutarla. La giovane protagonista è spinta, in modo quasi ossessivo, dal desiderio di capire se i suoi genitori biologici l’abbiano voluta e amata. Il film si connota come un viaggio di conoscenza e consapevolezza, un’accettazione di tragiche verità. Rose diventa solo la promotrice di questa ricerca, alla fine, infatti, tutti dovranno fare i conti con le proprie azioni e con i propri sordidi ricordi. In tutto il film si respira un’inquietante atmosfera dark, fatta di immagini fisse e lenti dialoghi; un’Irlanda bucolica e spoglia fa da scenario alla pellicola di Molloy e Lawlor che nel loro lavoro raccontano la difficoltà dei rapporti umani, l’importanza della consapevolezza della propria identità e il dramma della violenza di cui, qualche volta, si è capaci.

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