25 novembre. La penombra di Ana

by Enrico Ciccarelli

La giornata mondiale contro la violenza sulle donne non dovrebbe occuparsi (o non soltanto, almeno) di femminicidi. Perché l’assassinio di genere è la cuspide, l’evento catastrofico più grave, il più atroce, il più irrimediabile. Ed è anche il ferro di lancia più acuminato ed efficace per la cattiva coscienza dei maschi e quella delle donne di cui i maschi hanno colonizzato e conquistato l’anima.

Non è un caso che, con le motivazioni più disparate, si cerchi persino di negare l’esistenza della categoria, facendo un’interessata confusione tra donne uccise per i motivi più diversi (per interesse, ad esempio; o per rapina) e donne uccise in quanto donne, per motivi indissolubilmente legati al loro essere donne.

Perché allora oggi, proprio oggi, dovrebbe parlarsene meno? Perché il clamore del femminicidio, il suo urlo disperato, il suo sangue rischiano di abbagliare, di distrarre l’attenzione dalle altre violenze: meno letali, ma infinitamente più diffuse, e presenti con impressionante frequenza ed esattezza come elementi preparatori dei femminicidi.

Sono le violenze che fanno meno clamore, ma forse le più crudeli; perché non escono mai o quasi mai dalla penombra, non arrivano alle zone illuminate, restano ignote ai più. Talvolta, paradossalmente, ignote persino alle loro vittime.

Vorrei riferirmi a mo’ di esempio alla storia di Ana Maria Lacrimoara Di Piazza, uccisa a trent’anni, da incinta e perché incinta dal suo amante cinquantunenne, padre del bambino in gestazione, forse per la mostruosa colpa di non voler abortire o di avere chiesto all’uomo che amava tremila euro che le servivano per ragioni di cura (anch’esse legate alla gravidanza).

Mi è necessario per dovere professionale fare il nome di Antonino Borgia, il suo assassino reo confesso. Diversamente eviterei, perché quest’essere merita l’oblio più assoluto, in quanto assassino particolarmente feroce e malvagio, oltre che assolutamente stupido (il mostro ha già bastonato e accoltellato la povera ragazza, quando si accorge di essere esposto alle telecamere di sorveglianza, e quindi la convince a seguirlo nel furgone per finire il lavoro con la scusa di accompagnarla in ospedale).

Ma per comprendere la penombra di Ana, per capire in quale situazione sia rimasta irretita, occorre occuparsi della biografia del suo boia, di cui ci viene detto che è un imprenditore non meglio specificato, che ha alle spalle un matrimonio fallito e –a parte la relazione con Ana- vive con un’altra donna a cui, secondo le cronache, ha intestato la sua impresa.

Non c’è bisogno della zingara per capire che Borgia non ha agito per generosità: ha solo “messo al sicuro” i suoi beni per evitare che la moglie potesse appropriarsene, utilizzando a questo scopo un’altra donna, ben felice di partecipare a questa spoliazione perché lo ha fatto a lei, ma non lo farà a me.

Ed è la stessa cosa che probabilmente pensa Ana, che in base ai racconti delle sue amiche (a cui aveva persino tenuta nascosta l’identità dell’amante, per proteggerlo) non trovava niente di anomalo nell’essere la seconda scelta dell’uomo che amava, di questa persona con vent’anni più di lei, trasparente sostituto del suo padre biologico di cui le cronache non recano traccia.

Ana è probabilmente convinta che gli uomini siano fatti così: come il fidanzato precedente, che l’ha lasciata a occuparsi del figlio nato dalla loro relazione, quando la bella ragazza aveva probabilmente diciotto anni. Per questo non risulta che abbia tramato ricatti, che rappresentasse una minaccia per l’uomo, che volesse altro che un aiuto per portare a termine la gravidanza.

Non è bastato; non basta mai. Una volta che si siano innescate le logiche del dominio, una volta che il maschio si sia abituato a considerare una donna una propria pertinenza, appendice o proprietà, non c’è mansuetudine o mitezza della vittima che possa fermarne la mano.

È chiaro che per abbattere questo criminale pregiudizio ci vogliono decenni di battaglia culturale, di cura dell’educazione dei bambini sia maschi che femmine, di interventi sulla ferocia dei social, sdoganatori del peggiore sessismo. Ma è fondamentale scendere nella penombra di Ana.

Vi troveremo dolcezza di madre e ingenuità di ragazza solare, e un amore sincero e malriposto. Ma se vi mettete in ascolto, avvertirete l’eco lontana di qualche bella battutona goliardica. Ricordate quella del tizio che dice all’amico: “Un topo ti ha rosicchiato e rovinato la chitarra? A me una zoccola ha fregato due appartamenti!”? E vedranno in trasparenza i sorrisi compiacenti che accompagnano astute trovate come quelle di Borgia per la sua impresa, gli sguardi scettici o malmostosi quando si parla di parità salariale, il palpabile giubilo quando i giudici sentenziano che no, le mogli separate non hanno il diritto a mantenere lo stesso tenore di vita e l’assortita canea delle articolesse e dei servizi televisivi che hanno come leit-motiv la discriminazione al contrario.

È oggi che dobbiamo parlarne, per non ridurre questa giornata a vuoto rituale. Datemi retta: l’assassino di Ana si chiama Borgia; ma le impronte digitali su quel coltello sono davvero tante.

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