A 50 anni dall’allunaggio, possiamo ancora cantare alla Luna gli aggettivi di Leopardi

by redazione

Vaga, serena, graziosa, contenta, cara, benigna, queta, cadente, fortunata, paga, silenziosa, candida, intatta, solinga, pensosa, muta, grande, recente, diletta.

Nessuno di questi aggettivi, usati da Giacomo Leopardi per cantare la Luna- in Odi Melisso, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, La vita solitaria, Ultimo Canto a Saffo– è più lo stesso dopo l’allunaggio del 20 luglio 1969.

Tuttavia 50 anni dopo lo sbarco, forse, riusciamo a guardare la luna, “l’eterna peregrina”, con gli stessi occhi del “giovane favoloso”, che è senza dubbio il più grande poeta lunare europeo.  

Come i suoi due pastori Alceta, che ha sognato di veder cadere la luna nel suo campo, e Melisso, possiamo rivederla con occhi nuovi senza quell’orma o la nicchia, che l’astronomia, raggiunto il cratere vuoto, le aveva ormai assegnato alla fine degli anni Sessanta.

Il precipitar della Luna era un terrore notturno usuale per gli antichi, che temevano le maghe Tessale, che tirano giù la luna. Da Plinio a Plutarco del libretto “Il volto della luna”. E la luna è un po’ precipitata anche per noi, col piccolo passo di Armstrong.

Grazie ai nuovi media e alla moltiplicazione dell’immagine, però, possiamo rinverdire  l’abusato luogo comune della Luna, che è ispirazione romantica, specchio dei sentimenti degli innamorati, fascino della contemplazione, naufragio melanconico dell’anima. Certo non possiamo ritornar ad essere Astolfo, il nostro senno è ben radicato a terra, ma ci “resta sola questa luna in ciel” come dice Melisso rassicurando il suo amico.

Tutta intorno rifulge di fuoco, ma in mezzo più blu dello smalto si mostra un occhio di donna e morbida fronte, e un viso ti appare dinanzi

Plutarco

“Lo spirito di “Apollo” dall’America aveva diffuso voglia di creare, di fare… Uno spirito di solidarietà, di pensare all’altro, preoccuparsi dell’altro. Così nacque l’impresa della Luna, mettendo insieme un esercito di scienziati, medici, informatici, militari…”, ha detto recentemente Tito Stagno in una intervista al Corriere per le celebrazioni dell’allunaggio.

“La prima stella” di Dante nel Paradiso appare per noi nel 2019 meno fulgida. Ma già Giuseppe Ungaretti commentò così l’allunaggio: «Oggi è stato raggiunto l’irraggiungibile, ma la fantasia non si fermerà. La fantasia ha sempre preceduto la storia come una splendente avanguardia. Continuerà a precederla (…). Ma per gli effetti ottici che ha sulla Terra, la Luna rimarrà sempre per i poeti, e penso anche per l’uomo qualunque, la stessa Luna».

Ungaretti aveva ragione? Sì, perché le lune di Baudelaire e Mallarmé, la musica di Debussy, le bombette di Magritte, le lune elettriche di Marinetti, le canzoni di Garcìa Lorca, la certezza di Emily Dickinson che vede nella Luna una conferma dell’esistenza di Dio, il bagno lunare davanti al pianeta Melancholia di Lars von Trier, The dark side dei Pink Flyod e la parte oscura e storta di ciascuno di noi, ma soprattutto la domanda di Leopardi alla luna “che fai tu Luna in ciel, dimmi che fai silenziosa Luna?” ci suscitano ancora sbigottimento e attesa. C’è ancora il desiderio di “averla tra le mani”.

A 50 anni dall’allunaggio non siamo riusciti a svelarne per intero il mistero, se siamo ancora ad ammirarla, celebrarla e tentare di possederla, fosse anche con uno scatto o con un post.

Come nel Tramonto della luna, testamento leopardiano insieme a La Ginestra, non smetteremo mai di interrogarci sulla transitorietà dell’esistenza, che la luna evoca e richiama nel chiarore della notte.

Il viandante in Leopardi, l’odierno camminatore turista di cammini celesti, non sa nulla e vaga in confusione. La morte e la caducità sono sì un lento trascolorare verso l’oscurità, ma allo stesso tempo la luce fioca della luna, per noi ebbri di lei, illuminerà i nostri passi.

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