Alberto Arbasino: brillante maestro

by Vito Alberto Lippolis

Ho tutti amici più inetti di me, parenti terribili, un padre che non ne vuol sapere di essere ammazzato. Capite bene che, se vivere vuol dire trovare delle risposte, allora vivere, per me, è dura. Arbasino era uno che le risposte le aveva: alcune gli erano arrivate dal papà, altre dalla nonna e dalle zie, molte le aveva dedotte e più di qualcuna l’aveva inventata. È il motivo, semplice, per cui oggi, in salottini che si sono allargati fino a mangiarsi intere esistenze, è impossibile non sentire qualcuno buttare lì un’arbasinata, un bon mot d’antan che magari si pensa discendere dalla tradizione popolare e che, ovviamente, poteva aver messo in parola solo Arbasino.

Arbasino da solo non ha molto senso: ad aprire un suo libro a caso e a leggerlo tra sé e sé non ci si ricava molto, soprattutto si pensa a quella lista là di Umberto Eco con i do’s & don’ts, prescrizioni e proscribenda che sembrano fatti a posta, speculari a tutto quel che si potrebbe dire arbasiniano. Arbasino non è Eco: non c’è trama – o comunque non ha importanza, nemmeno nella Bella di Lodi, nemmeno nel Principe costante, figurarsi poi in Fratelli d’Italia – i concetti non sono mai spiegati, i nomi sempre ben esplicitati, sfarzoso e pure pieno di sprezzatura, l’Arbasino della lettera era unico. Hai voglia tu a parlare di Eco, del gruppo Sessantatré, di Pasolini, di tutti gli scazzi e di tutti i supposti nipotini. Di Arbasino, oggi, non è rimasto nulla, appena la sua opera.

È improbabile che AA avrebbe voluto altrimenti. Non gliene importava niente, ma niente per davvero. Aveva molti maestri, diretti o indiretti, sempre riconosciuti e raramente venerati, da Dossi a Gadda a Lévi-Strauss. Non gliene fregava talmente niente ad Arbasino che ammetteva di imparare anche da quanti gli potevano stare grandemente sui coglioni: non ha mai fatto una riscritturina della Princesse de Clèves, non ha mai straparlato di politica, non ha mai vinto un premio.

Che Arbasino, il più mondano dei nostri scrittori, non abbia mai vinto un premio, un Bancarella, un Campiello, uno Strega, potrebbe apparire piuttosto singolare. Almeno, potrebbe apparirlo a chi di Arbasino ha letto solo la pagina Wikipedia. Oppure ne ha visto una delle ultime apparizioni pubbliche, su Youtube ripreso a tradimento da Fulvio Abbate durante lo scrutinio di una delle tante serate stregate in casa Bellonci. Si vede lì, sgranato e lontano, Arbasino affacciarsi un attimo in balcone, tornare indietro, scambiarsi due parole con Tullio De Mauro; De Mauro già sulla china e lui sempre bellissimo, sempre elegantissimo. Perché Arbasino sapeva anche vestirsi, non so come o perché (nell’Anonimo lombardo consiglia completi grigi, da Fazio, presentando l’Ingegnere in blu, loda appunto il blu, vabbè), ma sapeva vestirsi.

Dicevo, i premi. Non ne ha mai presi né lo si è visto a somministrarne.

Nel Reato di scrivere, libretto uscito qualche anno fa sempre per Adelphi (un Arba, un Adelphi – si legge spesso su Twitter, quando qualche intellettuale del contado vuol far sapere di conoscere cos’è che si legge dentro le mura), Edoardo Camurri riporta una serie di articoli scritti da Juan Rodolfo Wilcock tra gli anni Cinquanta e Sessanta sullo strano mostro che andava istituzionalizzandosi in quegli anni, quello che poi avremmo imparato a chiamare “ceto intellettuale”. In un pezzo intitolato “Iniziazioni letterarie”, Wilcock ricorda una battuta di caccia tenutasi tra parco di Auteil e il Bois de Boulogne nell’estate del 1800: Tayllerand, ricevendo per la prima volta il trentunenne Bonaparte, decide di essere padrone di casa accomodante e così fa liberare prima lepri e poi addirittura un maialone travestito da cinghiale, perché il Corso possa sicuramente tornare a casa con qualcosa da scuoiare. Le bestie però, domestiche e affamate, tornano sì a casa con Napoleone, ma non certo perché cacciate, catturate dall’ingegno o dalla velocità o dalla forza del Bonaparte, bensì giacché, aduse agli uomini, gli corrono letteralmente incontro, tra l’ilarità del popolo presente e la totale, disperante credulità del futuro imperatore.

Chiosa Wilcock, che, pur d’indole solitaria, di Napoleoni doveva averne incontrati parecchi:

“L’analogia è fin troppo evidente. Napoleone è il giovane intellettuale, forte della sua giovinezza che suscita la solita ammirazione mescolata al disprezzo. Viene invitato a caccia dai suoi colleghi anziani, che hanno già pronta la finta preda. Il giovane, fiducioso, uccide una dozzina di miti conigli affamati – pubblica, cioè, una breve raccolta di liriche, che vengono lodate e se possibile premiate: intanto alle spalle del giovane cacciatore, tutti bonariamente ridono”.

Né Napoleone né Talleyrand, Arbasino ha vissuto tutta la vita nella grazia assoluta della gratuità, anche quando hanno provato a sventolargli la preda sotto il naso appuntito. Si è sempre rifiutato di accondiscendere a qualsiasi sedicente spirito dei tempi, a qualsiasi istanza di dirittezza politica e ha sempre, nei reportage e nei libri e financo in ogni apparizione o intervista, dimostrato (show, don’t tell) come l’unico compito dello scrittore sia di trovare il proprio tono, non la posa, non il ruolo.

Per chiudere e tornare alla casella di partenza, uroboro letterario un po’ a mo’ d’Arbasino, viene in mente come Eco, in un intervento dell’84 posto in apertura di Miti d’oggi di Roland Barthes, diceva: “C’è il maestro che lavora offrendo la sua vita e la sua attività come modello e c’è il maestro che spende la vita a costruire modelli, teorici o sperimentali, da applicare”. A me Arbasino m’ha insegnato tutto; soprattutto m’ha insegnato che non c’è nulla da imparare, c’è solo da fare.

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