Angelo Maria Ripellino. Un debito di gratitudine

by Enrico Ciccarelli

Il 21 aprile del 1978 moriva a Roma, stroncato da un collasso cardiocircolatorio, Angelo Maria Ripellino. Aveva da non molto compiuto 54 anni. 

Docente di Letteratura Russa e Letteratura Ceca alla Sapienza, Ripellino fu poeta parco di liriche (la maggior parte della sua produzione è racchiusa in uno degli splendidi volumi biancolatte della Collezione di Poesia Einaudi) ma prodigo di traduzioni: il primo a rendere in Italiano Boris Paternak, fra i primi a far conoscere Anna Achmàtova, studioso insigne di Velimir Chlebnikov e Vladimir Majakovsky. Né si limitò al Novecento: dedicò infatti una bizzarra e intrigante attenzione allo stesso Sommo Vate Lev Tolstoj e a uno dei suoi libri più famosi: in Per Anna Karenina mostrò come l’eroina fosse stata raggiunta e definita dall’autore solo dopo molti tentativi e varie versioni.

Il fatto che, fra le legioni dei libri scritti egli si dedicasse a quelli che avrebbero potuto essere e non furono dice molto della personalità di questo scrittore vasto  e complesso.

Se la Grande Madre Russia fu il continente immaginario della sua formazione (in realtà vi andò per la prima volta solo nel 1957) la sua Patria vera fu Praga, la Città d’Oro, in cui visse per qualche periodo, in cui conobbe l’amore della sua vita e alla quale dedicò pulsanti  drammatiche cronache fra il luglio e l’agosto del 1968, vergando per l’Espresso (allora prestigioso settimanale in formato lenzuolo della intellighentsia) la narrazione palpitante della Primavera e della brutale interruzione che ne fecero i carri dell’Armata Rossa.

La lunga frequentazione della Boemia gli portò fra l’altro in dote la lunga amicizia con il poeta Vladimir Holan, che gli dedicò una sua silloge e fu da lui tradotto in Italiano (Una notte con Amleto e Una notte con Ofelia, pubblicate insieme da Einaudi)

Praga magica si intitola il suo libro più famoso (Einaudi), strano oggetto meticcio che è un po’ romanzo e un po’ saggio, un po’ trattato e un po’ sogno. La breve biografia di Ripellino non può prescindere dalla sua lunga battaglia contro la tubercolosi, contratta a Roma verso la fine della Seconda Guerra Mondiale. Chi ha letto Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino capirà quel senso di precarietà e di distanza che il morbo regala a chi ne è affetto.

Ripellino declinò questo spaesamento in modi ironici e disperati, con una lingua che non contemplava la trascuratezza e una passione ininterrotta non solo per saggi e romanzi o per la musica, ma anche per le arti figurative e il teatro. È in questa veste che ho avuto in grazia di conoscerlo. Non personalmente, si intende; ma come firma.

Gli anni della mia adolescenza coincisero infatti con l’approdo di Ripellino (1972) alla rubrica di critica teatrale dell’Espresso (ormai, ad opera di Eugenio Scalfari, divenuto newsmagazine).

Va chiarito che il povero ed inesperto lettore di provincia che io ero non aveva alcun possibilità di verifcare de visu la bontà o l’attendibilità delle recensioni: Ripellino narrava la scena romana (e occasionalmente milanese), quasi sempre dal mainstream dell’Eliseo, del Brancaccio e luoghi consimili, più raramente negli spazi off di Trastevere. Delle oltre duecento recensioni scritte in sei anni da Ripellino, non ricordo un solo spettacolo circuitato o ripreso dalle mie parti.

Tanto più leggendario, mirabolante e occulto mi appariva il linguaggio del critico, che era non solo immaginifico e corrusco, ma anche denso di citazioni (di alta letteratura, di pittura, di musiche e –naturalmente- di teatro).

Per me quattordicenne la decifratura di quegli articoli era problematica e faticosa come la scalata all’ultimo cruciverba a schema libero di Piero Bartezzaghi, specie considerando che l’inesistenza di Internet obbligava a trovare i riferimenti compulsando libroni di enciclopedie e indici dei nomi. Fatica necessaria, ma non sempre adeguata, perché Ripellino era spesso assai più avanti del sapere ritenuto dalle enciclopedie.

Nei miei tentativi di autodidatta capitava che segnassi le parole, specie straniere, di cui non ero venuto a capo, per chiederne a chi ne sapeva di più il significato. Non sapevo di essere l’epigono inconsapevole di uno assai migliore e più grande di me: quel Giuseppe Di Vittorio che ritagliava dalle pagine dell’Avanti le parole che non capiva (penso parecchie) per chiedere lumi ai suoi compagni della Camera del Lavoro di Bari, che avevano studiato.

Naturalmente non era sfoggio erudito: Ripellino si limitava a esprimere la sua vita mossa e dolente, il fluviale carico di ciò che sapeva e amava, racchiusa nelle insormontabili tirannidi della tipografia. A volte tagliava corto, quasi sapesse che lo spazio non sarebbe bastato a concludere in modo degno. Altre volte stroncava uno spettacolo semplicemente parlando d’altro, quasi a dettare cosa l’incauto registra e l’imbelle commediografo avrebbero dovuto fare, invece di ciò che fecero.

Se volete avere un’idea del linguaggio e dello stile del nostro, copio a vostra edificazione l’incipit di Praga magica, che personalmente trovo formidabile:

Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a Via Celetna (Zeltnergazze) a casa sua, con bombetta. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Haiek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria.

Queste brevi righe, che non pretendono di essere un epicedio, servono solo a esprimere la mia commossa gratitudine ad Angelo Maria Ripellino e a quanti hanno fatto un uso raffinato, colto e stimolante delle parole: che ne hanno tracciato l’intima natura di conquista, progresso, accrescimento.

Nelle molte parole che non conoscevo, nelle molte cose che non sapevo c’era in controluce l’infinita varietà del mondo, la vastità inesauribile dei suoi paesaggi, l’oceanica immensità del suo epos. Una parola è ciò che indica e definisce, ma è soprattutto ciò che evoca, lo spettacolo su cui dischiude il sipario.

Quarant’anni dopo non ho imparato granché, anche se conosco qualche parola in più (che con zelo un po’ ottuso cerco di condividere con altri). Tornasse a nascere, Ripellino mi mostrerebbe altri luoghi ignoti, altre vicende sconosciute e memorabili. Non ho modo di saldare il debito di riconoscenza che ho contratto con lui. Posso solo dirgli grazie dal più profondo e cercare, nel mio piccolo, di restituire agli altri una piccola parte di quanto da lui ho ricevuto.

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