Bombshell, la storia delle donne di Fox News e la disfatta di Roger Ailes

by Vito Alberto Lippolis

È il 2016 e il paese più cinematografico di sempre elegge l’animale politico più chimerico di sempre, metà uomo metà tagline. Probabilmente incapace di leggere e comprendere De Mauro sul suo analfabetismo di ritorno, Trump ha però – in un gioco a somma zero che si vede forse solo in certe astutissime specie come le talpe, cieche e goffe epperò gran scavatrici – la straordinaria capacità di riconoscere una buona frase: di sé ha detto “a very stable genius”, dei suoi oppositori “fake news”, “swamp”, “nasty women”.

Nasty women, diciamocelo, è un titolo geniale e le stesse ragazzacce, che pure mai l’ammetterebbero, l’hanno preso e se lo sono cucito addosso.

Il 25 agosto 2015, Trump, cinguettatore compulsivo, retwitta «“@mstanish53: @realDonaldTrump @megynkelly The bimbo back in town . I hope not for long .”»

The bimbo, la biondina, è Megyn Kelly, all’epoca giornalista di punta di Fox News, che, il 6 agosto, aveva aperto il dibattito per le primarie repubblicane a Cleveland chiedendo conto a Trump degli epiteti sessisti utilizzati fino a quel momento per rispondere a quante avessero osato contestarlo.

Ecco, qui comincia Bombshell, la Bomba, film uscito a Novembre negli States e in questa settimana in tutto il mondo per Amazon Prime, che racconta la storia delle donne di Fox News e la disfatta di Roger Ailes, amministratore delegato della stessa per oltre vent’anni, dal 1996 al 2016.

Roger Ailes, qui interpretato da un ottimo John Lithgow (Churchill in The Crown di Netflix; God save the prosthetics, altro che la regina), è un personaggio interessante e una figura chiave della politica americana degli ultimi settant’anni: lavora per Nixon, Reagan, Bush sr, e – da quel nulla che è il capitale di Rupert Murdoch, un uomo immenso, del quale non si può non pensare qualcosa, uno tra le cui gesta si annoverano addirittura imprese inimmaginabili come l’aver sposato Jerry Hall – crea la chiesa di Fox News, il colosso televisivo più seguito d’America.

Far parte di Fox News, sia da conduttore che da spettatore, significa sottoscrivere un accordo di adesione ideologica ed estetica che nella nostra cultura non ha paragoni, neanche a volerne cercare nel cattolicesimo: neanche la Mediaset dei tempi migliori regge il confronto, buffonesca com’era, neanche la gracchiante e paranoide Retequattro di oggi; nulla regge il confronto con la profonda abnegazione che la visione di Fox and Friends o del Tucker Carlson Tonight comporta. Solo per fare un esempio: allo spettatore di Fox News oggi non viene più solo richiesto di votare Trump, credere al sedicente passato da modella di Melania Trump o sostenere che Babbo Natale deve essere bianco, oggi gli viene richiesto di credere che il Covid-19 è una balla, che è tutta una montatura di cinesi & democratici per affossare l’economia trumpiana, che è ora di andare in strada e protestare, manco ci fossero le navi degli inglesi attraccate al molo di Boston.

Ecco, Roger Ailes è questa cosa qui, Roger Ailes ha creato questa cosa qui.

Su Ailes ultimamente HBO ha anche prodotto sue stagioni di una serie, The loudest voice, con Russel Crowe – anche lì, tante guance finte e pochissima sostanza, col sovrappiù di dover scontare il peccato capitale di voler raccontare il carnefice e non le vittime – ma nessuno sembra voler dire esattamente come l’emofiliaco frugoletto di un manovale dell’Ohio abbia creato la macchina egemonizzatrice d’America.

È la fame, una fame folle e cieca, che, condivisa da entrambi i lati dello schermo, tiene su la baracca. È un congegno perfetto: se c’è un elemento comune a tutti i colonizzatori è proprio la fame, se c’è una cosa che, a sua volta, sa fare la televisione è stimolare l’appetito; si crea un circuito perfetto in cui lo spettatore non può fare a meno che puntare dritto nella stessa direzione del conduttore, gareggiandoci per follia, frenesia, assalto.

Sembra un sistema che si autoregola, è invece un sistema che si autoesaspera, un mondo votato alla sclerotizzazione, destinato all’implosione.

Il primo grande scossone arriva a giugno del 2016: Gretchen Carlson (nel film Nicole Kidman, evidentemente determinata a ottenere un Razzie, la si nota solo grazie alla parrucca traballante), enfant prodige del violino, studentessa a Stanford e Missa America 1989, viene licenziata e decide di citare in giudizio Roger Ailes per molestie.

Ovviamente nella redazione di Fox News si scatena l’inferno e noi ci si è divertiti tantissimo a riconoscere tutti: i maschietti che fanno quadrato terrorizzati, con O’Reilly in testa; Jeannine Pirro, giudice ai più è per l’imitazione di Cecily Strong alla SNL che la riprende come un’incorreggibile etilista urlante, che va di fanciulla in fanciulla tentando di insabbiare tutto; Abby Huntsman, che «no, nessuno mi ha mai detto di non poter indossare i pantaloni» a un reporter che non le aveva chiesto nulla del genere; Kimberly Guilfoyle, oggi fidanzata dell’amatissimo Donald Trump Jr, praticamente la lady D dei redneck USA, che passa dal girare per gli uffici con #TEAMROGER sul petto al dimenticarsi di ogni gratitudine nei confronti del pigmalione nel giro di un secondo.

In questa cornice troviamo un unico personaggio di finzione, Kayla Pospisil, una bionda bombastica (la sempre uguale eppure sempre credibile Margot Robbie),  giovane influencer evangelica appena arrivata a Fox News e affamata come poche altre. La sequenza che ne consegue dovrebbe essere un caso da manuale per i film da #metoo: piroette a comando, mutandine ostese e grandi sensi di colpa, culminanti in una sfuriata contro le vecchie leve conniventi e – ovviamente – una fuga lontano da Fox News, verso nuovi lidi, migliori avventure.

Un epilogo di una noia mortale, oltre che mortalmente inconsistente con il resto della storia: se c’è una morale (vabbè) nella storia di Gretchen Carlson è che sarà pure vero che le strade insicure vengono rese sicure dalle persone che le attraversano, ma non è che ci si debba buttare in mezzo alla giungla giusto perché si può o si deve. A far crollare il regno di Ailes non è una kamikaze in cerca di vendetta, è una donna che per mesi raccoglie prove, si informa su leggi e regolamenti, aspetta e sta all’erta.

Ora, sperando i più abbiano smesso di leggere da molte righe, occorre dire qual è il grosso problema di questa pellicola: di Gretchen Carlson – e di Kayla Pospsil – non gliene frega più di tanto a nessuno.

Mi spiace dirlo in maniera così brutale, ma davvero qualcuno ha creduto una storia metooista interessasse a qualcuno, questa storia metooista? Voglio dire: una donna cardine del #metoo è stata Rose McGowan, un’ex Strega con la testa rasata, un* fidanzat* fluid* e un passato da attrice di Tarantino e fidanzata di Marilyn Manson: se non gliene è fregato a nessuno di produrre un film su Weinstein, perché ci avrebbe dovuta interessare la parabola di quattro biondine, quattro repubblicane che per prime avrebbero voluto che il tutto fosse dimenticato?

L’ha detto meglio Nora Ephron nel 1972 nel pezzo On never having been a Prom Queen, parlando di uno dei tanti libri di femminismo pop che uscivano in quegli anni, la storia di una reginetta di bellezza che raccontava di quanto fosse difficile vivere da ex-belle: «I recognize that people who are beautiful have problems. But so do people who get upset stomachs from raw onions, and men with blue-orange color blindness, and left-handed persons everywhere. I just can’t get into it; what interests me these days tends to have more to do with the problems of women who were not prom queens in high school. I’m sorry about this—my point of view is not fair to Alix Shulman, or to my friend who thinks she is losing her looks, or to me, or to the movement. But that’s where it is. I’m working on it. Like all things about liberation, sisterhood is difficult.»

L’obiettivo, la morale, il messaggio: tutta roba altamente meritoria, ma siamo ormai abbastanza grandi da poterci dire che c’è bisogno di più, di altro che non un buon messaggio per fare una buona storia, che è necessario qualcosa più di un afflato redentore per fare un buon personaggio.

Così il film langue, gli spezzoni originali dei telegiornali dell’epoca hanno più ritmo della storia vera e propria e sceneggiatore e regista, rispettivamente Charles Randolph e Jay Roach, si rendono conto che l’unico modo per dare vita al tutto è riprendere davvero la vita com’è accaduta.

Here comes Megyn. Qui arriva la vera bomba.

Megyn Kelly è uno squalo. E Charlize Theron, che pure è bravissima, non ha neppure un quinto della bellezza di Megyn, nel suo sguardo non c’è neanche un centesimo della sua follia.

Laureata in Legge e avvocata (avvocato?), esercita la professione per «nove anni e mezzo», quindi un giorno si stanca e inizia a lavorare a Fox News, prima come corrispondente dalla Corte Suprema e poi, nel giro dei dodici anni che passa macinando servizio dopo servizio, arriva nel 2013 ad avere il suo personalissimo The Kelly file, programma serale di Fox che, all’età di quarantatré anni, la catapulta nel mondo dei giornalisti di primissima categoria.

Bellissima, col mento aguzzo e gli occhi iniettati di qualcosa di molto più denso del sangue, cinque sere a settimana in video e milioni di persone a seguirla.

Quando si sparge la notizia che Carlson ha denunciato Ailes e che i Murdoch hanno aperto un’inchiesta seria sulla questione (cioè non l’hanno affidata a Rudy Giuliani, il sindaco di New York ai tempi dell’attentato alle Torri Gemelle e oggi avvocato di Trump), è lecito per lei avere dubbi: non ha mai condiviso il mantra “believe all women”, non ha mai amato le vittime, non ha mai voluto essere la storia, non ha mai voluto che qualcuno che non fosse lei stessa avesse il potere di modificare le cose con le parole.

Il film è un po’ facile e fa sembrare che la Kelly abbia deciso di essere il primo grande nome a denunciare Ailes dopo aver fissato intensamente la figlioletta che una sera le dormiva sul sedile posteriore: noi facciamo finta di crederci, però non ci interessa.

È interessante invece andare a scovare cos’ha detto di recente, in un video sulla pagina youtube che si è aperta dopo essere stata cacciata dalla NBC per certi commenti inconsulti su certe questioni razziali molto americane: il film le è piaciuto molto, ha anche colto l’occasione per andare a dirlo in tutti i programmi e su tutte le reti; forse, dice, si vede troppo che è scritto da un maschio, però innanzitutto: «[…] they suggest I run my debate questions for Trump by the Murdochs and that’s a fantasy: I never run by Ailes or the Murdochs or anyone other than my debate team. So that was not true.»

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