Diario di confine/1

by Enrico Ciccarelli

Il bell’articolo di Germana Gea Zappatore su James Matthew Barrie e Peter Pan mi detta qualche riflessione sui malcerti confini tra il vissuto e l’immaginato, fra quello che noi chiamiamo, non senza presunzione, “realtà” e quello che qualifichiamo come sogno, fatamorgana, miraggio.

È affascinante indagare il mix di biografia e fantasia che sta all’origine di una creazione letteraria, di un mito, di un epos. Barrie creò la saga dei Bambini Perduti e del loro intrepido capo per allietare le giornate del figlio della donna che amò per tutta la vita senza speranza, o non fu piuttosto il bambino a dettargli quel personaggio e quella saga?

Lo stesso vale per Bice Portinari, detta Beatrice, che siamo tutti impegnati a immaginare come una creatura di bellezza tale da ammutolire, e magari era la trasmutazione di un qualche efebico Folco, o muscoloso Lapo o Corso, con cui il Sommo Poeta praticava i piaceri della sodomia.

O la povera Silvia, che Leopardi ci ha consegnato come un fugace sogno di grazia soave, mentre era con ogni probabilità una rachitica e tisica servetta nell’impietosa Recanati dell’Ottocento.

Difficile e non sempre saggio allestire le mappe, tracciare i confini, identificare le regioni, le coste, i territori. Possiamo al massimo, come i membri della Scientifica, tracciare un confuso profilo di gesso che identifichi il corpo della vittima.

È già tanto: perché l’intreccio narrativo arriva spesso a involvere il corpo fisico dell’autore. Paradigma di questo è la cecità di Omero, che il mito attribuisce all’avere il poeta esposto gli occhi all’intollerabile luce dello scudo che il Dio Vulcano aveva forgiato per il Pelìde Achille, come è raccontato nell’Iliade di Omero.

Per non parlare dei libri avvitati su se stessi: come fa Cervantes nel Don Chisciotte, nel quale compare a un tratto un libro che è lo stesso Don Chisciotte. O come quando, nell’immenso itinerario delle Mille e una Notte sembra fare capolino la storia della fanciulla Sherazade e del crudele Shahiryar, cosa che fa temere un labirintico loop, con il racconto dannato a tornare perennemente al punto di partenza.

Restano imperscrutabili le vie attraverso le quali l’immaginario finisce per imporsi alla realtà, come la modifica non solo idealmente, ma materialmente. Prendete il balcone di Giulietta, meta di decine di migliaia di innamorati che vogliono vedere il luogo in cui una fanciulla adolescente ha detto al suo amato “cos’è mai un nome?”.

Ovviamente non abbiamo alcun riscontro che l’adolescente innamorata e sventurata narrata da Guido da Porto nel ‘400 (fu quella novella a ispirare Shakespeare) sia realmente esistita. Assai più probabile che si tratti della rivisitazione del mito babilonese (e poi greco e romano) di Piramo e Tisbe.

In ogni caso il balcone non adorna una della case Capuleti (che realmente esistettero), anche se forse proviene da lì. L’edificio medioevale su cui è stato “reincollato” appartiene però alla famiglia Cappello. Del tutto logico che di tutte queste informazioni non importa un fico secco a quelli che vogliono solo avere l’illusione di vivere un pezzo di sogno.

Ben venga, quindi, la visita alla Casa di Sherlock Holmes, al 221b di Baker Street. Non serve a nulla stabilire che l’uomo dalla pipa e dagli improbabili cappellini a scacchi che bullizzava il malcapitato dottor Watson non sia mai esistito e non abbia mai detto “Elementare”, Watson!

A Londra, Trafalgar Square è dominata dalla statua (elevata e minuscola) di Horatio Nelson (gloria britannica e feroce assassino, se mai ve ne furono). I Kensington Gardens accolgono in un luogo discreto e ospitale la statua di Peter Pan. Davvero fa differenza quale dei due abbia davvero respirato?

La Dublino di Joyce ci offre poi –ce lo ricorda Umberto Eco- un singolare caso di andata e ritorno dalla letteratura alla realtà: nell’Ulysses, Leopold Bloom entra in una farmacia che vende fra l’altro, delle saponette a forma di limone aromatizzate allo stesso frutto.

La farmacia esiste ancora, ma al tempo dell’uscita del ciclopico (in ogni senso) libro di Joyce, aveva smesso di vendere quelle saponette. Ha ripreso a farlo a seguito della fortuna letteraria del libro.

Confini mobili, frontiere fluide. Prive di regole, oltretutto. Perché lungo il Quai des Orfèvres, che affaccia alla Senna sull’Ile de la Cité, cercherete invano una targa, un memoriale, un qualche segno distintivo che spieghi come in quell’edificio, che ospitava (e forse parzialmente ospita ancora) la Sûreté, l’ufficio centrale della Polizia Giudiziaria, abbia svolto per quarantun anni, fra il 1931 e il 1972 la sua onorata professione il Commissario Jules Maigret, eternato in settantacinque romanzi di Georges Simenon e impersonato da Jean Gabin, Gino Cervi e tanti altri in un profluvio di pellicole.

Forse che la Francia e i Francesi non abbiano fantasia? Chiedetelo a Cyrano di Bergerac e ai suoi viaggi sulla Luna, alle fosche epopee di Rocambole e Fantomas, al mirabile capolavoro di immedesimazione che sono Le memorie di Adriano. Ma questa è la terra dei Lumi, in cui qualsiasi contaminazione del razionalismo è vista con sospetto e con un po’ di supponenza, specie se viene da quegli eterni bambinoni degli anglosassoni.

La prossima tappa di questo diario di confine sarà dedicata a loro.

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