Disagio e devianza: il ruolo della scuola e della famiglia

by Davide Leccese

Questa riflessione su “Disagio e devianza: il ruolo della scuola e della famiglia” ha, come focus sì il disagio ma che – come registrano le cronache di questi giorni –  è causato e causa anche fenomeni di bullismo. La condizione di “disagio” richiama immediatamente uno stato che è l’opposto di “agio”, di condizione positiva del proprio “stare nella vita”. Ma non riusciremo a definire il disagio se prima non stabiliamo i parametri dell’agio.

Attenti, quindi, a non considerare l’agio come lo star bene secondo parametri di felicità voluttuaria e non di un campo di valori.

L’infelicità giovanile può anche essere uno stato d’insoddisfazione per la richiesta di soddisfacimento di disvalori, assunti a bisogni.

Non è detto che ogni condizione di “sofferenza” sia negativa se produce la consapevolezza di cosa sia giusto pretendere e cosa non sia giusto volere a tutti i costi. Alcune premesse sono necessarie.

È saggio parlare con cautela e prudenza delle nuove generazioni che, nell’accelerazione dei tempi del vissuto, ci sfuggono di mano con un ritmo talmente vorticoso che, paradossalmente, si vuole restare più giovani a lungo con una voglia pazza di tutti – non solo dei giovani anagraficamente definiti – di essere considerati tali.

Eppure noi, che giovani non siamo più, ci trinceriamo nel gruppo dei “laudatores temporis acti”, celebratori del passato, spesso fittizio e bugiardo, per distinguerci da un presente di cui siamo parte in causa, sia nel bene che nel male.

Fatta questa premessa, trattare di disagio e bullismo e del ruolo della scuola e della famiglia, significa andare alla radice del ruolo formativo, educativo e istruttivo delle due comunità educanti principali.

Ruolo che chiama in causa il rapporto stretto non solo tra scuola e famiglia ma anche il contesto sociale.

È sempre più vero che la scuola ha la società che si merita come la società ha la scuola che si merita. È sempre più vero che o scuola e famiglia stabiliscono un patto leale per la “cura” delle nuove generazioni o il rimpallo delle responsabilità finirà per incancrenire non solo le identità dei singoli giovani ma anche, pericolosamente, l’identità sociale nella quale esercitiamo la nostra condizione umana e politica.

È anche vero e doloroso che la scuola registra disagio e fenomeni di bullismo, com’è vero, purtroppo, che la scuola alcune volte genera disagio.

Solo se accettiamo, con onestà intellettuale, questo circuito di responsabilità – tra scuola/famiglia/società – è possibile mettere in atto una terapia di recupero dei propri limiti a tutto vantaggio di un’azione serena e seria della condizione di disagio di tanti giovani; condizione di disagio che può sfociare o nell’essere vittime del bullismo o nell’essere attori del bullismo.

Altra premessa, proprio per evitare lo scadimento in un comodo alibi del “fuori mi tiro dal peggio”: la gran parte, la maggior parte dei nostri giovani sono giovani per bene, sono soggetti positivi. E lo affermiamo contro i catastrofismi delle “notizie del giorno” che si nutrono prevalentemente di cronaca nera e tacciono il vissuto valoriale di tanti ragazzi e tante ragazze che sono la testimonianza di quel volere il mondo migliore, nonostante i guasti, le tragedie, le ingiustizie, le nefandezze di una società disvaloriata nella quale noi adulti viviamo e facciamo vivere le nuove generazioni.

Le condizioni del disagio esistenziale dei nostri giovani?

Si alzano al mattino, i nostri giovani, e si trovano davanti orizzonti inquinati da guerre, da violenze, da egoismi, da furbizie; eppure continueremo a dire loro che val la pena vivere onesti perché l’unico peso che fa volare è il peso delle idee buone che emozionano la mente e il cuore.

Ma come si fa a dire ai giovani di puntare sui valori, sugli ideali quando la logica corrente, predicata a gran voce o sussurrata all’orecchio dei figli è “fatti furbo, fatti valere, vedi di cavartela comunque, occhio per occhio dente per dente”?

Alcuni di questi ragazzi prendono alla lettera questi messaggi e si esercitano nell’arroganza, nel farsi valere sui più deboli; credono di cavarsela nella vita affermandosi come piccoli boss di quartiere, piccoli ras di strada.

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Tra le condizioni che generano disagio in testa poniamo la paura di essere perdenti. In un lungo percorso si può anche cadere ma bisogna insegnare a rialzarsi, a mirare al traguardo senza aspettarsi che qualcuno faccia per te il cammino, senza nemmeno pretendere che ci sia chi ti porta lo zaino per alleggerire le responsabilità del necessario bagaglio, anche pesante, da consegnare alla meta.

Ci sono genitori, invece, che hanno più paura dei figli delle sconfitte di percorso e mettono in atto un iperprotezionismo che gioca a togliere gli ostacoli davanti ai loro passi, preoccupati che cadano e non sappiano più rialzarsi.

Machiavelli diceva che “Dove c’è una grande volontà non possono esserci grandi difficoltà”.

Alcuni educatori – soprattutto alcuni genitori – sono incapaci di vivere assieme ai giovani e ai figli le condizioni di dolore e di gioia; avvertono una sorta di blocco psicologico che in fondo è la consapevolezza – a posteriori – che la fonte di questi stati d’animo è diversa dalle fonti generatrici degli stati d’animo degli adulti perché profondamente diverso è il vissuto delle diverse generazioni.

Ci sono alcuni genitori che fanno della riuscita scolastica dei figli uno status symbol di cui vantarsi nelle riunioni di amici o sui social network.

Con i giovani bisogna essere prudenti e coraggiosi, esigenti e comprensivi.

Quando ero docente insegnavo ai miei studenti quel passo straordinario dei “Sepolcri” di Ugo Foscolo, che chiude quell’intramontabile ode all’umanità.

Si vince e si perde nella vita ma bisogna saper perdere con dignità; il che è una magnifica vittoria. Foscolo ci parla di Ettore, l’eroe troiano che, pur consapevole che gli Dei avessero deciso la caduta della città di Troia, non rinunciò a combattere fino alla fine, fino alla morte, per affermare il principio che il pericolo lo si guarda in faccia, nonostante la paura. “E tu onore di pianti, Ettore, avrai, ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole risplenderà su le sciagure umane”.

La paura di non riuscire: una delle condizioni che genera disagio che permane come stato di ansia o, peggio ancora, di blocco psicologico nei giovani, è l’avvertire di avere dei limiti (niente di più normale nella vita); limiti che – sentiti come insormontabili – creano l’errato convincimento di non poter assumere alcun posizionamento nella vita. Il “che farò un domani?” rischia di diventare un blocco nefasto e una patologia dai pericolosi risvolti esistenziali.

Altro pericolo è nel non trovare adeguate risposte alla domanda di accettazione, nella famiglia, nella scuola, nel gruppo di amici.

Latente, allora, è il rischio di cercare rifugio nel “branco”, quello stare insieme spesso dei “rifiutati”, dei “non compresi”, degli “emarginati” che si fanno forti nell’esasperato affermarsi anche contro la legalità dei comportamenti.

Attenti, però, a non giocare con la pelle dei giovani. Se vanno avanti solo i “figli di…” e tutti gli altri saranno trattati come “figli di nessuno”, il disagio può esplodere in definitiva sfiducia verso il sistema sociale e, perché no, in rabbia e protesta.

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Un invito ancora a noi adulti, educatori: meditare sull’assenza. Molti credono che l’assenza sia la lontananza fisica; sì, anche quella. Ma la vera lontananza che crea disagio, angoscia, tristezza, rigurgito verso il rifiuto di ogni idea di serenità, è l’abbandono fatto di presenza fisica e di assenza psicologica e affettiva. Genitori e docenti che pensano ai loro problemi che talvolta scaricano come pressione relazionale sui figli e sugli alunni.

Un altro invito ad alcuni genitori: non illudetevi che sia facile e comodo, oltre che costituisca sanatoria delle proprie responsabilità, sostituire la propria presenza, nella vita dei figli, con le “cose” che assicuriamo: vestiti alla moda, cellulari di ultima generazione. Non dite “non ti faccio mancare niente”, se fate mancare voi stessi.

Una riflessione di Don Milani da riferire ai nostri giovani, a proposito della ricerca spasmodica delle “cose”, merce al posto delle persone, feticci al posto dei valori: “Le cose meno belle, purtroppo, vengono da sé, invece le cose belle bisogna imporsele con la volontà, perché c’è stato chi ha pensato a fare in modo che la società vi offrisse tutto quello che occorre perché alle cose belle e utili non ci pensaste e teneste la vostra vita a un basso livello”.

Stiamo passando dal disagio del non avere al disagio del volere sempre di più.

I nostri giovani hanno bisogno, hanno diritto di credere nella vita e la vita si nutre di entusiasmo.

Bruce Barton ha detto: “Se non puoi dare a tuo figlio nient’altro che una sola cosa, lascia allora che sia l’entusiasmo”.

Per questo io mi ostino a guardare il positivo. Nella mia lunga esperienza nel mondo della scuola ho potuto bearmi degli sguardi limpidi di tantissimi giovani, dediti al volontariato, abituati al sacrificio, disponibili agli altri, generosi senza attendere ricompensa, desiderosi di un avvenire fatto di orizzonti non posticci.

Ma siamo proprio sicuri, noi adulti, di essere approdati all’oasi tranquilla dell’equilibrio, della saggezza permanente che possa fungere da parametro incontrovertibile di fronte all’inquietudine giovanile?

Citerò, a questo punto, quel che dice Alfredo Carlo Moro: “La condizione giovanile di oggi non è il “buco nero” della nostra società ma piuttosto “la finestra spalancata” su una realtà sociale spesso camuffata sotto valori solo declamati: per superare la “devianza” giovanile e il disagio dei giovani è indispensabile prima di tutto eliminare la “devianza” adulta e la situazione di profondo disagio, anche se non avvertito, che attanaglia il mondo degli adulti oggi”.

Per cogliere il senso profondo di questa delicata condizione di disagio, sia degli adulti sia dei giovani, non è sufficiente affidarsi alle buone intenzioni; occorre avere l’umiltà di chiedere lumi agli esperti, affidarsi a chi, professionalmente, studia il fenomeno, per evitare paccottiglie d’interventi che rischiano di essere pseudo-cure peggiori del male.

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Un inciso di riflessione o – se volete – di denuncia – su disagio, devianza, bullismo e società.

Vogliamo togliere il terreno di coltura a questi bulli-vigliacchi? Puntiamo su una Città educativa, un contesto urbano severamente controllato e testimonianza del lecito e del consentito praticato.

Una città è educativa se è viva, vissuta e vivibile. Il problema allora è politico nel senso etimologico del termine: polis, politikòs che ha nel suo seme il “tutto ciò che appartiene al cittadino nell’alveo dei suoi diritti e dei suoi doveri”.

Se un quartiere è degradato, genera degrado e il degrado genera disagio e il disagio genera inappartenenza. E ciò che non è di nessuno fa sì che qualcuno se ne appropri come spazio della violenza, dove tutto è permesso ai violenti contro i deboli.

Puntiamo su una città che chiarisca definitivamente a se stessa come possano convivere – nella patologia sociale diffusa – l’intolleranza e il permissivismo; esasperati contro, possibilisti quando conviene.

Come possiamo dire a questi teppistelli: “Stai agendo male, stai sporcando i muri, rompendo le panchine”, se la nostra è una comunità dove vale ciò che disse Dante: ”Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”.

I bambini non nascono bulli, ma viene insegnato loro a esserlo” (Matt Bomer).

Nessun giovane nasce bullo, vigliacco contro se stesso e verso gli altri, specie se più deboli o più sensibili. Alcuni di questi diventati bulli sono ex soggetti disagiati che hanno costruito un identikit aggressivo perché hanno subito aggressione, si sono convinti che ci si afferma come “personaggi” solo se gli altri diventano sgabelli della loro presunta superiorità. Altri sono diventati bulli per affermarsi in un branco solo se dimostri di essere capace di “dominare” e non vivere da gregario. Altri sono diventati bulli perché, nel confrontarsi con il proprio io privato, si sono sentiti falliti, deboli, non considerati.

Ecco, allora, il ruolo della scuola e il compito della famiglia: dare ai giovani il coraggio e la consapevolezza della loro dignità di persona, il saper inculcare il coraggio dell’altruismo e la voglia del positivo, il creare il convincimento che – come ha detto Eleonor Roosvelt – “nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso”.

Soprattutto dobbiamo dimostrare ai giovani – noi educatori – che sentiamo la loro storia come la nostra storia, che la loro riuscita ci interessa come se fosse la nostra riuscita.

Ascoltare i giovani, parlare ai giovani, essere credibili nei propri messaggi, dimostrando che, se chiediamo loro la lealtà e il rispetto degli altri, noi adulti siamo rispettosi e leali con gli altri e soprattutto con loro.

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Solo per inciso accenno al cyber bullismo e al bullismo telefonico; le forme sicuramente più aggressive in questi tempi.

Questi benedetti-maledetti cellulari che allontanano dalle persone fisiche e avvicinano a fantasmi colloquiali tra un io isterico che digita e altri, altrettanto isterici, che coltivano il brodo delle relazioni falsate.

La cronaca recente sta registrando uno spaventoso esito nefasto di questo male, con suicidi, patologie relazionali che sicuramente richiedono un intervento drastico, da parte delle comunità educanti, famiglia e scuola in testa.

Gli esperti di psicologia dell’età evolutiva ci avvertono che i giovani di oggi sono più “liberi” e meno “autonomi”, schiavi delle mode, incatenati all’apparire, privati – a volte – della capacità di decidere perché “così si usa”, “così si è accettati dal gruppo o, peggio ancora, dal branco”.

Un ruolo fondamentale la scuola lo svolge con le armi a sua disposizione; prima fra tutte la cultura. La cultura che noi chiamiamo all’appello per la maturazione della coscienza individuale e la consapevolezza delle nostre responsabilità sociali è una cultura graffiante le croste delle bugie e dei perbenismi, è una cultura che fa dire, in ogni attimo della vita, “che ci sto a fare io, qui?”

Sembra invece che la cultura stia diventando una parola usurata, fuori moda nell’annaspare nel mare magnum delle improvvisazioni di questi tempi, distruttrici d’idee, di sentimenti, di azioni significative e ingolfati di luoghi comuni, di emozioni provvisorie e di gesti eclatanti.

La cultura come riflessione, come nutrimento selezionato contro l’abbuffata delle appariscenze verbali e visive.

La cultura nostra e della scuola deve essere a tutti i costi pensiero forte che attinge a messaggi da scolpire nell’anima, non da tatuare in un’estetica dell’apparire secondo l’idea che tutto passa, ogni idea è fantasma dell’identità.

Non ho mai dimenticato una lezione del mio professore di filosofia che un giorno ci disse: “Non siate mai estranei a voi stessi nel tentativo di piacere agli altri”.

La nostra presenza: quando i nostri ragazzi e le nostre ragazze sono in fase di piena crescita ci trovano ingombranti, anche quando cerchiamo di non occupare gli spazi dei loro pensieri e delle loro emozioni.

Chi sono gli educatori ingombranti? Quelli che trasferiscono i loro dubbi o, all’opposto, le loro certezze come se fossero l’interpretazione assoluta e incontrovertibile dell’esistenza del genere umano.

Chiudo questa mia riflessione con un invito a noi adulti a non essere distratti, a guardare il mondo dalla porta del cuore dei nostri giovani e dalla finestra della loro menti.

E un invito ai giovani da Alice, quattordici anni, che ha scritto questa lettera a un giornale: “È inutile nascondersi perché nel bene e nel male le cose si vengono a sapere lo stesso! Bisogna parlare soprattutto se è una situazione come la mia o come quella di tante altre persone, ma alle vittime dico: è bene farvi aiutare perché mi sembra inutile che gli altri vi rovinino la vita per niente, sono persone che non si meritano né la vostra attenzione né la vostra fiducia, ma soprattutto non si meritano il vostro rispetto e la vostra amicizia”.

Un invito, in conclusione, ai nostri giovani: siate coraggiosi, siate leali, siate solidali. Io, per parte mia, vi auguro una buona sorte.

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