Elena muore legata al letto. 40 anni dopo Basaglia, il manicomio è ancora vivo

by Antonella Soccio

20 anni, Elena Casetto ha vissuto l’incendio del reparto di Psichiatria del Papa Giovanni di Bergamo fino alla morte, legata ad un letto, immobilizzata, atterrita, derubata della sua libertà. Le è stata negata la dignità di giovane donna nello stesso ospedale che avrebbe dovuto curarla, accompagnarla al ritrovamento di sé.

“Martedì mattina, intorno alle 9.30, la giovane (“in preda a un forte stato di agitazione”, ha scritto l’ospedale in un comunicato) avrebbe provato a togliersi la vita con un lenzuolo stretto attorno al collo. Da qui, l’hanno sedata e contenuta a letto, il personale le ha bloccato braccia, gambe e torace.

Chi ha vissuto o ascoltato le esperienze di chi ha subito una contenzione in presidio psichiatrico sa che essa arriva spesso per pigrizia e superficialità del personale ospedaliero. Si preferisce legare il paziente, per continuare torpidamente e burocraticamente a redigere scartoffie. Parlare coi pazienti, conquistare la loro fiducia, è troppo faticoso, complesso. La creatività non ha accesso nella gran parte degli Spdc d’Italia.

Secondo il protocollo, i pazienti andrebbero controllati ogni 15 minuti: prima sorvegliati a livello visivo, poi verificando i parametri vitali. Ma ci sono casi e casi in cui questi controlli sono elusi.  

Poco dopo l’ultimo controllo, verso le 10 – è la ricostruzione dell’ospedale dove è morta Elena Casetto – dalla stanza della vittima sarebbero partite le fiamme, nel breve estese a gran parte dell’arredo.

Questa ultima morte, dopo quelle iconiche degli ultimi anni, riporta in auge la domanda: ma che Paese è un luogo dove i malati sono ancora legati a letto?

Il No Restraint, ossia il no alla contenzione, si sta affermando in Italia in circa 30 reparti grazie alla rete del E Tu Slegalo subito. Tra questi uno solo è No Restraint in Puglia e nel Sud, l’Spdc di San Severo, all’ospedale Masselli Mascia, diretto dal dottor Domenico Tancredi, responsabile SPDC San Severo e Membro Direttivo del Club SPDC No Restraint.

La storia del No Restraint è lunga: nel 1796  il quacchero Tuke  fonda il ritiro di York; nel 1839  John Conolly  applica il No Restraint al manicomio di Hanwell il quale conteneva  circa 1000 ammalati; nel 1952 Maxell Jones  in Scozia avvia l’esperienza della Comunità Terapeutica e nel 1960 Franco Basaglia a Gorizia  inizia la radicale trasformazione del manicomio in Comunità aperta che porterà alla legge 180. Negli Anni ‘70 vengono radicalmente trasformati i manicomi e alcuni di essi, tra i più violenti e ottusi, chiusi: Nocera Superiore, Perugia, Arezzo , Reggio Emilia, Colorno.

In vista ormai dei referendum radicali, il Parlamento accelerò i tempi per superare la legge manicomiale del 1904 ancora in vigore, approvando la legge n. 180 (legge Basaglia) che disponeva la chiusura dei manicomi. Tuttavia in questo testo non era prevista alcuna forma alternativa di cura e assistenza per i malati psichici, così come proponevano i radicali, e per questo Marco Pannella fu l’unico deputato a votare contro in Commissione.

Gli SPDC, nati dopo la Legge Basaglia, sono un reparto ospedaliero per risolvere il problema delle urgenze/emergenze del momento. 

Seguono più o meno rigidamente un modello organizzativo simile a quello di un qualsiasi altro reparto ospedaliero

Sul piano pratico però presentano tante restrizioni: la chiusura/apertura della porta d’ingresso nelle ore diurne (come ben noto sempre chiusa nei reparti di accettazione degli ospedali psichiatrici); la questione cruciale della contenzione fisica, con eventuali norme che ne regolino le modalità, il contenimento affidato al personale e la sedazione farmacologica;  la possibilità d’uso di posate normali per i pasti (negli ospedali psichiatrici di norma ciò era vietato); la possibilità di movimento dei ricoverati, ovviamente, in rapporto alle loro condizioni psicofisiche, anche con accompagnatori e/o familiari.

Persistono metodi di trattamento manicomiale. L’ indagine conoscitiva del Senato della Repubblica datata 2013 ha certificato che gli SPDC, uniche strutture presenti dentro l’ospedale, rimangono per la maggior parte luoghi chiusi e con ancora largamente diffuse pratiche di contenzione (talora attuate illegittimamente come se fossero “terapie”). Essi sono frequentemente privi di possibilità di   interventi riabilitativi e sociali, che possano fungere da collegamento con i servizi territoriali come prevenzione della cronicità: molto della cura è affidata alla psicofarmacologia e la qualità della vita dei ricoverati è spesso limitata ai soli bisogni primari. Gli SPDC risultano quasi tutti “luoghi chiusi”, non solo per i ricoverati, ma anche, dall’esterno all’interno, per le Associazioni di familiari ed utenti, per il volontariato, formalizzato ed informalizzato, a scapito di una trasparenza dell’operato sanitario, di cui godono invece tutti quei luoghi sanitari che sono aperti e liberamente frequentati.

Un altro tema è quello delle equipe multiprofessionali, che fanno ancora fatica a decollare: mancano la cultura dell’integrazione e la comunicazione interprofessionale, dal momento che i vari operatori utilizzano linguaggi diversi e metodi e strumenti monoprofessionali per descrivere la salute.

Oggi i reparti No Restraint considerano il modello di “Modello di aggressione del paziente ricoverato in reparto psichiatrico” proposto da H. L. I. Nijman abbastanza attinente al proprio modo di operare. Esso rappresenta un’interpretazione abbastanza isolata nella letteratura internazionale del fenomeno della violenza in psichiatria. Isolata, perché gran parte degli studi sulle cause che determinano l’aggressione è orientata sulle caratteristiche del paziente: la psicopatologia ed il contesto sociale della persona (vedi ciclo dell’aggressività di Smith). Il modello di Nijman invece, amplia il panorama e mette in luce alcune variabili ambientali, del contesto sanitario (variabili del reparto e dello staff) e l’interazione fra queste e quelle del paziente. L’autore ipotizza inoltre che il ripetersi delle aggressioni nei reparti psichiatrici sia il risultato di un circolo vizioso: alla violenza del paziente spesso segue un aumento delle tensioni ambientali e comunicative con il conseguente aumento del rischio di nuova violenza. A conferma della teoria, gli studi sostengono che il paziente violento è normalmente recidivo. Sono infatti una minoranza i pazienti responsabili di episodi di aggressività.

“Una morte che arriva non è altro che il risultato di una pratica manicomiale tacitamente condivisa da tutti compreso i mezzi d informazione che si interessano del fenomeno solo quando arriva l’evento eclatante che va sulle prime pagine dei giornali, poi tutto ritorna nella norma quando invece nella sostanza si continua come prima tra il disinteresse di tutti”, osserva a Bonculture il dottor Domenico Tancredi di San Severo.

Accogliamo alcune sue riflessioni sulla morte di Elena Casetto.

Ecco cosa ha scritto sulla giovane Elena lo psichiatra No Restraint, unico in Puglia a dirigere un reparto in cui non si legano i pazienti.

La morte di Elena Casetto mi piomba addosso, le mie emozioni sono di impotenza, disperazione e rabbia. Ascolto, leggo qualche articolo per saperne di più, per sapere chi era Elena, come viveva, com’era arrivata a vivere un’esperienza traumatica, come quella di un reparto di psichiatria, a soli diciannove anni. Ritorno alla mia razionalità e mi chiedo come ci si possa stupire di questo evento quando in Italia il fenomeno della contenzione è tacitamente e globalmente misconosciuto e accettato da tutti: classe politica, mass media, classe medica, soprattutto dagli specialisti del settore, ossia gli psichiatri. Il Presidente della SIP (Società Italiana di Psichiatria) afferma in un’intervista: “In medicina la contenzione viene fatta spesso: nei casi di necessità si sceglie il male minore, quando non farlo rappresenta un rischio per il PZ. In Italia solo il 5% dei reparti non la pratica, ma con il rischio di creare problemi maggiori”.

Aggiungiamo a questo che gli esiti devastanti di una persona che ha subito la contenzione non costituiscono oggetto di ricerca dei baroni universitari [ndr]. Ritengo che questa affermazione da parte del Presidente degli Psichiatri Italiani sia completamente fuori luogo.

Sono uno psichiatra che lavora nel SPDC di San Severo (FG), dove in ventisei anni non abbiamo mai legato nessuno e non abbiamo mai creato problemi maggiori della stessa contenzione.

Come noi ci sono tanti altri SPDC in Italia che si autodefiniscono “NO Restraint”, alcuni di questi lavorano con il No Restraint assoluto, ossia zero contenzioni e porta aperta (esiste anche una contenzione ambientale oltre che quella fisica), altri con il No Restraint Relativo: sono quei SPDC che stanno mettendo in atto delle pratiche che consentono un percorso caratterizzato da una forte riduzione del numero delle contenzioni fisiche, avendo ben chiaro l’obiettivo finale dell’ eliminazione totale della contenzione.

Tutto ciò si sta diffondendo ben oltre quel cinque per cento citato dal Presidente della SIP; in alcune Regioni, quali ad es. l’Emilia Romagna, dove da qualche anno vi sono delle politiche Regionali di lotta alla contenzione, si è passati da 972 contenzioni nel 2017 a 437 nel 2015 a poco più di un centinaio nel 2017.

La contenzione meccanica attraverso fasce, legacci etc. rappresenta oggi una pratica manicomiale che è dura a morire, probabilmente perché non basta una legge (Legge Basaglia n. 180 /78) per chiudere con il manicomio.

La società Italiana di Psichiatria, nel corso del proprio Congresso Nazionale , svoltosi a Torino nel mese di ottobre del 2018, solo in quella sede ha fatto ammenda “ sulle posizioni della SIP negli anni della Presidenza Donaggio (1929-1942), su chi allora ha sostenuto posizioni razziste e stigmatizzanti e sulle conseguenze che questo ha comportato per molti malati e persone che, a vario titolo, lavoravano nei manicomi…” ; mi domando: quanti altri anni ci vorranno per affermare da parte della stessa società che la contenzione non è un atto terapeutico, pertanto non è prescrivibile, è illegale, viola la costituzione (art. 13 e 32) ed è consentita solo quando esiste un gravissimo stato di necessità certo e non presunto (art 54 c. p.)?

Spero che la Comunità Politica, innanzitutto, i mass media e a stretto giro la Comunità degli Psichiatri possano fare quel passo decisivo affinché non ci siano più morti come quella di Elena e applicare tutte quelle riforme della psichiatria già scritte e definite (progetto Obiettivo 1998-2000) invece di privilegiare la psichiatria degli inserimenti Residenziali, inutili e cronicizzanti, che assorbono circa il sessanta per cento delle risorse economiche dedicate.

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