Eugenio Scalfari e il papà legionario nella Fiume dannunziana

by Fabrizio Simone

D’Annunzio entrò a Fiume il 12 settembre 1919 seguito da circa duemilacinquecento volontari ma l’impresa fiumana, complessivamente, attirò un numero di gran lunga superiore, fino a superare le diecimila unità negli ultimi mesi della Reggenza. Incuriositi ed eccitati dall’euforia generale, a Fiume arrivarono personaggi d’ogni estrazione sociale ad ingrossare il numero di volontari e ad inasprire i rapporti con la cittadinanza: ottantenni garibaldini in camicia rossa, esaltati, contesse e prostitute, letterati, giornalisti in cerca di notizie sensazionali, loschi avventurieri, sacerdoti nazionalisti, contrabbandieri, minorenni fuggiti di casa, idealisti, sindacalisti, attori e artisti, spie assoldate dal governo italiano, arditi, militari disobbedienti, generali, eroi di guerra, spacciatori, cocainomani, futuristi, giovani ribelli, sbandati, dandy, milionari in grado di finanziare l’impresa e l’amministrazione della città, anarchici, criminali, faccendieri, ricettatori, agitatori politici, energumeni pronti a «menare le mani», monarchici, reazionari, repubblicani, fascisti, socialisti e comunisti.

Il patriottismo spinse una larga fetta di volontari ad abbracciare la causa fiumana e a raggiungere D’Annunzio. Patriota fu il legionario Pietro Scalfari, padre del celebre Eugenio, fondatore di Repubblica, scomparso oggi a 98 anni. Il nazionalista Pietro Scalfari, tenente degli Alpini impegnato per due anni nelle trincee del Carso e dell’Isonzo, partì da Ronchi insieme a D’Annunzio e rimase a Fiume oltre un anno. Scalfari arrivò sull’Isonzo mentre suo fratello Antonio, comandante di un plotone di fanteria e convinto dannunziano, cadde gravemente ferito durante un assalto alla baionetta sull’altopiano di Asiago. Tornato a casa con la spina dorsale spezzata, Antonio rimase sulla carrozzella dei grandi invalidi per sette anni, finendo i suoi giorni nel 1923, quando decise di estrarre dal cassetto la sua rivoltella di ufficiale che puntò alla tempia, liberandosi finalmente dalla dipendenza contratta verso la morfina, più utile della medaglia d’argento al valor militare per sopportare il dolore.

Pietro Scalfari, a Fiume, strinse una sincera amicizia con D’Annunzio, come ha raccontato il figlio Eugenio: Mio padre non fu solo un legionario di D’Annunzio, fu anche un suo amico. D’Annunzio gli scrisse molte lettere da Gardone e nel 1921 gli mandò un piccolo libro dove raccontava la gesta del Carnaro, vale a dire l’operazione militare su tre motoscafi, tre Mas, guidati da Costanzo Ciano, Luigi Rizzo e lo stesso D’Annunzio armati con tre siluri a mano. Risalirono il Carnaro penetrando nel porto di Pola, dove c’era, all’ancora, una vecchia corazzata austriaca. Quella che il poeta chiamava «la gesta», cioè l’impresa avventurosa, fu passare sotto le reti di protezione del molo, lanciare da pochi metri di distanza i siluri e tornare frettolosamente ai propri motoscafi subito dopo l’attacco, che riuscì perfettamente: affondarono la nave da guerra austriaca. Quel libretto dannunziano, che io ho conservato, ha la dedica: «Al tenente Pietro Scalfari che nella giornata di Zara cantò a squarciagola la canzone del Carnaro sull’aria della Giovinezza». Ed è firmata così: «L’Alpino Gabriele D’Annunzio». La canzone, che mio padre intonò forsennatamente e che io gli sentii qualche volta cantare, era stata composta dallo stesso D’Annunzio: «Siamo trenta d’una sorte / e trentuno con la morte. / Eia, l’ultima! / Alalà! / Siamo trenta su tre gusci, / su tre tavole di ponte: / secco fegato, cuor duro, / cuoia dure, dura fronte, / mani macchine armi pronte, / e la morte a paro a paro. / Eia, carne del Carnaro! Alalà!». E finiva così: «Tutti tornano o nessuno. / Se non torna uno dei trenta / torna quella del trentuno, / quella che non ci spaventa, / con in pugno la sementa / da gittar nel solco avaro. / Eia, fondo del Carnaro!».

Pietro Scalfari non svelò mai al suo unico figlio cosa accadde a Fiume o nelle trincee. Il ricordo del fratello scomparso precocemente lo convinse ad archiviare tutta l’esperienza. Si limitò a intonare canzoni alpine per divertirlo e a declamare liriche disseminate da D’Annunzio nell’Alcyone e nel Poema paradisiaco, facendo scoprire a quel bambino di dieci anni la produzione del più grande poeta italiano vivente. L’ex tenente degli Alpini, al pari di molti altri legionari, avrebbe voluto che D’Annunzio capitanasse la marcia su Roma al posto di Mussolini e, radendosi la barba, instaurò un piccolo rituale, tendendo a sputare contro la propria immagine riflessa nello specchio, colpevolizzandosi per non essere riuscito ad evitare la scalata al potere del giornalista di Predappio, lasciando interdetto il piccolo Eugenio: Non capivo il senso di quel gesto e una volta glielo chiesi. «Sputo a me stesso», rispose. «Sputo perché quando quel mascalzone e farabutto di Mussolini informò D’Annunzio che avrebbe fatto la Marcia su Roma, toccava a noi legionari insorgere contro quella decisione: solo il vate avrebbe dovuto e potuto guidare quella marcia. E invece D’Annunzio non gli rispose e anche noi stemmo zitti».

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