Favole di incubi. Perpetuum mobile

by Raffaella Passiatore

C’era una volta, in un passato non troppo lontano, un villaggio e una scuola e un bambino di nome Shabir.

Quel bambino non amava la scuola. Tutti nella sua famiglia erano analfabeti ma sua nonna conosceva a memoria delle storie bellissime che gli raccontava ogni sera prima di dormire. La nonna aveva detto a Shabir che, se fosse andato a scuola, avrebbe non solo imparato a leggere tutte le storie mai create dagli uomini e dagli Dei dall’inizio del mondo ma avrebbe anche appreso ad inventarne di nuove. L’idea aveva entusiasmato Shabir!

Il primo giorno di scuola aveva smesso il caftano grigio, il suo preferito, per infilare l’uniforme del collegio.

Per mandarlo a scuola, tutta la famiglia aveva risparmiato da prima ancora della sua nascita. Si era organizzata una colletta e perfino gli zii di secondo, terzo e quarto grado avevano dato qualcosa del loro poco, affinché Shabir andasse a scuola ed arrivasse sino al Matric.

Sin dal primo giorno, però, Shabir si rese conto che la scuola non era ciò che la nonna gli aveva lasciato credere. Il bambino aveva in breve tempo imparato a decifrare le lettere dell’alfabeto ma tempo per leggere e, soprattutto, per creare storie nuove a scuola non ce n’era mai! Il maestro, un uomo alto e magro dal naso a becco di corvo, pensava ad insegnargli la matematica, le scienze, la geografia, l’inglese, ma non le storie. A Shabir quella scuola non piaceva. Si annoiava. Anzi, provava fastidio ed irritazione per le lezione del maestro ed aveva sempre la sensazione di star perdendo inutilmente il suo tempo.

Una mattina, le lezioni erano appena iniziate e Shabir prese a guardare le lancette dell’orologio sull’ampio quadrante bianco, proprio sulla testa del maestro. Era come se, guardandole, fosse sicuro di poterle anche spingere in avanti con la sola volontà, affinché scivolassero più velocemente sul quadrante tondo. Per Shabir diventò un’abitudine. Dall’inizio fino alla fine delle lezioni, cercava di non abbandonare con lo sguardo le lancette.

Passarono settimane. Una mattina, appena giunto davanti al cancello dell’edificio scolastico, notò alcune bambine già in fila nel cortile per l’appello. Era raro incontrare delle bambine a scuola! Una in particolare attrasse la sua attenzione. Era più alta delle altre, aveva gambe lunghissime e si muoveva con la leggerezza di una gazzella. A differenza delle altre, i capelli erano biondi e Shabir non aveva mai visto pelo di quel colore. Aveva sentito parlare in qualche favola di fanciulle dai capelli d’oro, che vivevano in lontani regni del nord, ma non pensava che esistessero veramente. La bambina dai capelli d’oro rideva con le sue amiche, mostrando piccoli denti bianchi come conchiglie. Gli occhi erano grandi come quelli della piccola antilope ma del colore del mare. Si muoveva graziosa, malgrado avesse mani e piedi enormi rispetto alle sue coetanee. Shabir s’incantò. Da quel giorno iniziò a contemplarla e non smise per tutti gli altri giorni a seguire. Anche su di lei, come sul quadrante dell’orologio, non riusciva a staccare lo sguardo. Se dall’orologio desiderava che il tempo accelerasse la sua corsa, ecco invece che sulla bambina dai capelli d’oro sperava che il tempo si congelasse per sempre. Eppure il Tempo sembrava non ubbidirgli. Il tempo a scuola non passava mai mentre quello dedicato alla contemplazione della bambina, prima e dopo le lezioni, gli pareva sempre più breve; un frullio d’ali, un lieve battito di ciglia, l’istante di un respiro.

Un giorno, giunto come sempre in anticipo nel cortile della scuola, vide la bambina dai capelli d’oro staccarsi dalla scolaresca femminile. Portava i raggi di sole raccolti in una poderosa treccia. Ella veniva verso di lui. Sognava, forse? Gli veniva incontro, ormai era ad un solo braccio teso da lui e gli sorrideva. A Shabir parve di svenire. Eppure l’attimo di felicità assoluta che gli mordeva la gola, gli sparava al cuore e gli bruciava lo stomaco era già un ricordo. La campanella suonò e lei scappò via. La vide allontanarsi mentre, sorridendo, si metteva in fila e prendeva per mano la sua compagna.

Le lezioni iniziavano anche per Shabir. Quel giorno più che mai cercò spasmodicamente di spingere con gli occhi le lancette su quel rosone sopra la testa dell’officiante. Il maestro, che lo teneva d’occhio da settimane, questa volta reagì. Con severità chiese a Shabir di ripetere quanto poc’anzi spiegato. Alla scena muta di Shabir seguirono due colpi di ferula sulle mani e l’obbligo a prolungare di quindici minuti la sua permanenza in classe. Il maestro riprese le lezioni. Shabir con più sofferenza si concentrò sul futuro, quel futuro meraviglioso in cui avrebbe potuto rivedere la fanciulla dai capelli d’oro. Non desiderava altro, mai aveva desiderato qualcosa in vita sua con tanta forza! Immaginava il viso di lei e le sue fantasie andavano mescolandosi in un’anticipazione temporale che lo trascinavano via dal presente. Con la mente Shabir stava sgusciando fuori dal banco e volando via, fuori dalle mura di quell’aula.

Il maestro gli arrivò alle spalle. Questa volta la ferula colpì tra il collo e la scapola. Urlò dal dolore, il cuore in gola e poi l’annuncio: altri quindici minuti oltre la campanella d’uscita. Sarebbe dovuto rimanere in classe per ben trenta minuti oltre il tempo prestabilito! Chiuso lì dentro mentre la luce del sole era fuori. Chiuso a fare altri compiti, con il cappellino di carta a punta, quello destinato agli asini o quelli come lui che rifiutavano il presente. Eppure, adesso più che mai, Shabir si sentiva forte, irrobustito dal desiderio e reso caparbio dal piacere dell’immaginazione e prese a spingere le lancette con l’occhio della mente. E più lui le spingeva in avanti con la volontà di cancellare il presente, e più quelle tornavano indietro. Erano due spade affilate le lancette nelle mani del loro boia; quel maestro ingaggiato dallo spietato Signore del Tempo! Più Shabir spingeva avanti il presente con la volontà e più il boia aggiungeva minuti alla tortura e nulla riduceva la sua delirante sofferenza. Altri quindici minuti, e poi altri quindici, e poi altri trenta e poi e poi ancora…Il maestro, al servizio del Tempo, accresceva e addizionava, ancora e poi, di nuovo s’allungava…

La ferula e poi l’addizione impietosa di altro presente, che si estendeva a dismisura diventando infinito.

Da lungo era terminato il tempo della scuola. I compagni di Shabir avevano giocato nei cortili, avevano raggiunto le loro famiglie e le loro case, rinfrancato i loro corpi di cibo e riposo. Già avevano aiutato i loro cari nelle faccende domestiche, o nei campi, o nelle stalle. Già la luce aveva iniziato a ritirarsi, e Shabir era ancora lì, punito di aver osato sfidare il Tempo.

Tramontava il giorno, quando una bambina dai capelli color dell’oro accese la lanterna e prese posto sul barcone che l’avrebbe riportata attraverso l’acqua da dove veniva, una lontana terra oltre quel mare, in un Paese freddo del nord.

La bambina guardò la luce della lanterna riflettersi nell’acqua e allora le venne in mente una poesia in urdu, una di quelle della tradizione in copla capfinidas, come le aveva insegnato la sua maestra:

Mi sei rimasto negli occhi,

mai raggiungesti il profondo;

come un viaggiatore

sul mare, in una barca.

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