Giorgio Bocca, il giornalista senza compromessi, dall’orizzonte di narrazione descrittiva enorme, asciutta e variegata

by Filippo Mucciarone

Ne aveva da sfangare il ‘900 che premeva come movimento tellurico la crosta dei tasti mentali sull’uscio del ventesimo secolo (per gli anni solari), di ricordi mai evasi, esperienze fatte proprie stritolate nel pensiero sotto l’impervio effetto della polvere e del freddo, nella canea di zolfo o polvere da sparo, come parentesi tra le stagioni.

Come in un’anima affranta ed espressiva, ma precisa come punta di diamante in un prisma che si irradia con solerzia, sui fatti e le cose, gli accadimenti ed i periodi storici, con innata specializzazione dedita all’attività di scrittore principalmente incentrata su opere relative ad aspetti sociali, economici e politici dell’Italia. Tra le due guerre, i due secoli, le due italie (quella povera ed analfabeta e del miracolo economico, neo repubblicana, e quella lacerata da terrorismo nero e rosso). Quella della Milano da bere e del nascente network catalizzatore Fininvest tra le vecchie e nuove vestigie della politica segnate dall’ascesa al potere del Cavaliere. E nonostante tangentopoli, della prima e seconda Repubblica.

Parliamo di Giorgio Bocca, ovvero di colui che senz’ombra di dubbio è stato e sarà tra i più grandi ed indiscussi reporter italiani del ‘900, e non solo, (insieme a E.Biagi e I.Montanelli colonne inossidabili del giornalismo ontologico; non solamente anagraficamente e per indirizzo poi specifico d’ambito di competenza). E a rammentarci ciò in maniera più che effervescente, è il Gruppo Editoriale Gedi che ne omaggia in occasione del centenario della sua nascita (1920-2020) in una carrellata essenziale, la narrazione di gesta, scorribande, racconti e cronache di fatti “capra e cavoli” in un’occasione più unica che rara, attraverso la ristampa di suoi otto fondamentali volumi; qui riportati in un breve rimando “retrospettivo”.

Un orizzonte di narrazione descrittiva enorme, asciutta e variegata, senza il freno sulla descrizione “molesta” della percezione e della sensazione storico sociale, che interseca la lente del territorio cuneese (sua terra di origine) con qualità olfattiva del “cane segugio” infallibile scovatore di tartufi, in uno stile cronachistico reale e concretamente chiaro ed incisivo tanto da sembrarci scritto ieri al volgere appunto della storia e dei fatti.

E’ il caso del suo primo libro d’esordio “Partigiani della Montagna” del 1945 (che grazie ad una piccola casa editrice avrà una tiratura di cinquantamila copie e sarà anche il suo trampolino di lancio per gli inizi della sua carriera in Gazzetta del Popolo – giornale di destra – diretto da Massimo Caputo) … […] ”Noi della guerriglia con i nostri fucili e le bombe a mano avevamo finito la nostra parte. Ma i critici e i diffamatori della Resistenza questa distinzione tra guerriglia e guerra grossa, per malafede o perché non c’erano, non la vogliono riconoscere, continuano a ripetere cose ovvie, stupide: non siete voi che avete vinto la guerra. Che grande scoperta! Certo non l’abbiamo vinta noi la guerra grossa, ma nella guerriglia la nostra parte l’abbiamo fatta. Solo in rare occasioni guerriglia e guerra grossa si confusero, nelle grandi battaglie dell’agosto ’44 per il controllo dei valichi alpini per la Francia e alcune furono vinte: in Valle Stura una divisione tedesca segnò il passo per cinque giorni e quando potè proseguire gli alleati erano già nelle basse Alpi e la fermarono con le artiglierie pesanti…”I Tedeschi cominciarono come nella guerra grossa, due o tre cannonate sopra di noi ci passarono sulla testa come un vagone merci, ma da Monterosso in cui si cominciava la guerriglia, dovevano scendere dai carri armati e venir su per le pietraie e il bosco e fu lì che si capì che anche loro, gli onnipotenti, avevano il fiato grosso”

Una maniera di fare giornalismo quasi senza “compromessi”. Che lo vedono nel gergo dell’inviato di razza, tanto nei quartieri popolari di Milano (vedi gli eccelsi articoli relativi del 1991), che a degli incontri privati con il Cavalier Berlusconi o a dei ritrovi pubblici per premiazioni giornalistiche con Montanelli. Anche ad elogiarne in quel giusto che basta, l’onor delle armi, nelle loro rispettive qualità di persuasione. Dunque senza abiure che tengano; come detto una maniera intransigente ed ostinata. Edonistica sino al paradosso per lo stesso suo collega sia a Repubblica sia all’ Espresso, Giampaolo Pansa, che lo accusa in una lunga controversia professionale di introdurre forme di un revisionismo strisciante nei suoi testi. Cosa per cui, già ottantenne, torna a battersi per le ragioni che gli premevano da ventenne. Ma non solo.

Da uno stralcio di “Noi Terroristi” del 1985 ci narra…[..] ”C’è, non può mancare la “qualità fondativa” come la chiamano, il mi muovo dunque sono, il vecchio attivismo futurista, fascista, sovietista, riverniciato; la pratica o tattica dei passaggi che diventa strategia: non si ha la minima idea di cosa si farà, arrivati al potere, anzi in molti non c’è neppure un’idea di arrivare al potere, ma si procede per successivi passaggi, fughe in avanti, legnate, recuperi, rilanci”…”Con la scienza di poi, i figli del sessantotto capiranno che nella ruota del loro mulino passavano anche le acque della destra classica: violenza, durezza, fantasie metastoriche, intolleranza. Una delle fantasie metastoriche ricalca esattamente quella dei consigli operai nell’Italia di Gramsci e di Togliatti, la deformazione della realtà geopolitica, per cui la parte delle città industriali diventa il tutto della nazione pronto alla rivoluzione. I sessantottini sovversivi e i loro eredi guerriglieri, sempre localizzati a Torino, Milano, Genova, Marghera, Roma e dintorni, si comporteranno come se non esistesse l’altra Italia dell’intatto ordine provinciale, connettivo grigio, spesso, impenetrabile fra i focolai in rivolta. Il giudizio storico, dicevo, resta sospeso nonostante gli esiti spesso fallimentari. Chi è stato dentro al movimento crede che, nonostante tutto, sia stato un prezzo della transizione, una necessità della transizione. Qualche volta i giovani vincono, altre pagano. Di certo questi degli anni Settanta hanno più pagato che vinto”.

Nel 1954 il passaggio all’ Europeo dove si afferma come grande firma, potendo così viaggiare in tutto il mondo seguendo molteplici eventi. La sua grande stagione però inizia al Giorno negli anni Sessanta nel quotidiano fondato da Mattei, che propone un giornalismo di tipo nuovo ed in cui v’è direttore l’ex partigiano Italo Pietra, di cui sposa pienamente la filosofia: «Raccontare la provincia, l’agricoltura, le fabbriche per come realmente erano, luoghi di vita e di conflitti».

In alcuni passaggi di capitoli de “Il Provinciale” del 1991 (come Gli anni della neve e del fuoco, Guerre e sciagure altrui, La patria alpina), in un’epoca difficile e compromessa per il Paese e la Repubblica, a cavallo della crisi delle tigri di carta, e alla vigilia dello scandalo di Tangentopoli, non esula sempre in pieno metodo camaleontico e puntiglioso che gli si addice brevi accenni di più ampi ed ariosi (quanto circostanziati) effetti d’eventi cronachistici incidenti:

[..]..[.. ] ”Ogni provincia in Italia ha avuto il suo fascismo anche se il Duce, le sahariane, il re e imperatore, gli stivali, le aquile, le greche erano uguali per tutti. Ma la ragione per cui il nostro fascismo basso piemontese è andato avanti fino al ’39, fino all’asse con la Germania nazista, fino alle leggi razziali, cioè fino a quando è diventato qualcosa di estraneo e di incomprensibile, è che esso era qualcosa di casa nostra, che rientrava quasi sempre nelle cose di casa nostra. Da noi non era come a Torino, a Milano, a Roma, non c’erano fascisti venuti da fuori e quei pochi, come il federale Glarey, un valdostano, si integravano subito nella cuneesità, affittavano case di nostri amici o parenti, venivano a sciare con noi a Sant’Antonio di Aradolo”.

… “Le guerre degli altri sono come un abito che indossi e smetti quando ti fa comodo. La differenza fra te e coloro che ci son dentro fino al collo sta in un piccolo libretto con su scritto “Passaporto”, dipende da lui se puoi prendere il primo aereo in partenza e uscirne. A volte sorvolando il Sud-est asiatico pensavo ai confini casuali quasi incomprensibili delle guerre: ecco, ora sotto di me c’è il Vietnam dove la vita di un uomo non vale un centesimo, dove si tortura, si stupra, si macella, e fra pochi minuti sarò sul Laos dove c’è pace e dopo sulla Thailandia con fiumi e turisti nella Bangkok dei piaceri: stesse foreste, stessa gente, stessa economia ma condizioni umane lontanissime, come se un dio capriccioso avesse scelto per gli uni la vita per gli altri la morte”.

…“Certe mattine mi viene una voglia forte di Svizzera…Appena passato il confine il cuore mi si allarga in un sentimento di ordine e libertà, la libertà che è figlia dell’ordine. Non possiamo più permetterci scapigliature e ribellioni, siamo totalmente dentro un’anarchia oscena che il bisogno di ordine è un bisogno di aria respirabile. Se guardo il lago di Lugano, i paesi, la montagna sento che questo paesaggio ha rispetto dell’uomo e l’uomo di lui. Cerco l’ordine svizzero anche nelle cose più aspre: la cassiera del ristorante sta telefonando alla polizia, ha visto un’auto in sosta vietata nella strada. Brava”.

Ugualmente, ne “Il secolo Sbagliato” del 1999 (cap. Una strana democrazia), sembra Bocca, non arenare tal vezzo nel suo disquisire “dissacrante”.

[…] ”Ci sono voluti quindici anni prima che gli italiani e i loro partiti si rendessero conto che questo modo di fare politica con clientele sempre più costose era insostenibile. Il De Gasperi conosciuto da Gobetti era uno che “non poteva concepire la politica che non fosse anche impegno morale”. Ma i successori di De Gasperi avevano idee diverse, facevano acquistare dalla Rai, azienda di stato, pacchetti di film a prezzi superiori di centinaia di milioni, cifra che poi il venditore passava al partito; o assumere dalle aziende iri decine di migliaia di persone mantenute dallo stato; o esentare i coltivatori diretti, loro elettorato, dal pagare le tasse; o accollare alla previdenza pubblica milioni di presunti invalidi in uno stato sociale che indebitava le generazioni future”…E sarà anche vero, come dice Carlo Fruttero che “è pur sempre meglio dover convivere con Mastella che con Milosevic” e che questo mezzo secolo democratico è stato anche di progresso economico e di libertà, ma il meccanismo che perde colpi al punto di essere paralizzante, ha indebolito il legame forte che c’era con la prima repubblica “fondata sulla Resistenza”. Non a caso, Carlo Azeglio Ciampi, nuovo presidente della Repubblica, si è trattenuto dal nominare la Resistenza nel discorso inaugurale, avrebbe avuto un suono falso; con tutte le sue implicazioni morali non ha più senso in un sistema politico economicizzato e snazionalizzato”…”Essere di sinistra oggi non è facile. Nuotare contro corrente è più difficile che lasciarsene trascinare; le eguaglianze e i conformismi consumistici confondono il paesaggio sociale…Questa agognata eguaglianza non è forse stata raggiunta come mai nei secoli precedenti? Rendersi conto che l’eguaglianza dei consumi è ingannevole non è semplice, Neppure capire che la disuguaglianza continua e che la rivoluzione tecnologica, il fatto dominante del mondo nuovo, è una macchina di diseguaglianze più dura e incontenibile delle passate…Gli innovatori procedono trionfanti senza accorgersi che la risacca gli toglie la terra sotto i piedi. E’ accaduto anche con Lenin e Stalin: credevano di costruire il socialismo e dovevano tornare al capitalismo della Nep, alla religione patriottica, al richiamare in servizio quelli dei tempi e metodi, e i pope dalle mitrie sfavillanti. E adesso, che del socialismo non si parla più, si incomincia a parlare di un capitalismo difficile, che sta preparando non si sa quali contraddizioni. Non è tempo per la sinistra di avventurarsi in nuove utopie. E’ tempo di ristabilire nel caos un minimo di regole”.

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