Giorgio Bocca parte seconda: la sua scrittura era insieme “fisica e politica” della geografia e della storia del Paese

by Filippo Mucciarone

Inutile indugiare sul Personaggio Giorgio Bocca, non resterebbe che stupefatto anche uno spaventa passeri impalato nel piazzale di grande ipermercato, nell’era internettiana due punto zero della divulgazione alla verifica analogica della cosa; chissà si sarebbe potuto lasciar scappare di dire sullo stupore del molto non detto tra il commentato d’epoca attuale. Di lui, il partigiano della parola, il burbero dai modi gentili, il piemontese (travisando il termine) non falso e cortese (rispetto proprio all’italiano faus e vilàn), ne descrivono certo meglio ancor più le emblematiche e flemmatiche introduzioni ai suoi volumi (come quella de “L’inferno. Profondo Sud, male oscuro” ) consultabili on line, e per questo dunque, certamente profonde e dettagliate come vere e proprie quarte di copertina digitali.

Come pur in tal compito non denigrano affatto a riguardo i suoi articoli sempre (consultabili) on line pubblicati della rivista italiana di cultura, politica, scienza e filosofia MicroMega.

Il sunto qui concentrato a firma Albero Papuzzi di un bel pezzo a Lui dedicato all’indomani subito dopo la sua scomparsa, sulla Stampa di Torino del 27 Dicembre 2011 così asserisce: “(…) Uno degli interpreti più accreditati soprattutto come autore di inchieste sulla società italiana, reporter che andava sul posto e dentro la notizia coglieva problemi, fenomeni, trasformazioni, disastri. In questa veste di cronista è stato probabilmente il numero uno. Imperdibile l’incipit di un’inchiesta sul miracolo economico condotta per Il Giorno nel 1962, con partenza da Vigevano: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una”. Il suo rapporto con la realtà italiana è quello del medico che ausculta il paziente. Anni dopo è tra i primi, per esempio a scorgere il radicamento della Lega e di Bossi nella società lombarda, in una fase in cui sparivano i grandi partiti di massa. Al punto perfino di infatuarsene per una breve fase. All’epoca era già passato a Repubblica partecipando con Scalfari nel 1976 alla fondazione del giornale e teneva la rubrica «L’antitaliano» sull’ Espresso . Nella sua storia di giornalista ci sono moltitudine di libri frutto delle sue inchieste o collezioni di suoi articoli: si contano sessanta titoli, nessuno ha scritto tanto”.

Descrizione suddetta, che sembra tanto più pertinente, emergente ed inesorabile in quanto riportato in alcune parti di capitoli come Le fabbriche del Latte, L’internazionale Contadina e Un vecchio giovane paese, presenti in “Italia anno uno” del 1984…

[…]…”Piacenza per dire. Ci sono voluti duemiladuecento anni, sette distruzioni, sette ricostruzioni, con mura romane usate per palazzi medievali o rinascimentali poi ricoperti di una storia che macina e fabbrica, fabbrica e macina muri che diventeranno sopramuro, strada sopraelevata o avvallamenti erbosi, o bastioni ricoperti da giardini; e ancora Annibale alle porte, crociate, dominazioni francesi e spagnole con lascito di nomi, di accenti, di coloriti olivastri; e poi preti e caserme, cupole e bombe ostensori e cavalli per arrivare all’attuale rebus urbano e culturale della città, che è ciò che non è…Città misteriosa, lunare, conventuale, guelfa, cardinalizia, che ora ha superato la moda americana del gokart ed ella villetta in collina con piscina a fagiolo e torna al Po, a piazza Cavalli, al grande palazzo fantasma dei Farnese, alle strette ombrose vie radiali che conducono a basiliche fatte di cotto attenuato dalle nebbie. Sulla riva opposta del Po, in un’altra storia, Cremona, altra indistruttibile città padana: nel Quattrocento aveva centomila abitanti, ventimila più di oggi, stava fra le dieci grandi città del mondo cristiano, maggior porto fluviale di quella Europa: la via del sale e delle spezie partiva da Costantinopoli o da Sidone o Tripoli, toccava la Grecia italica, arrivava a Comacchio, risaliva il Po fino a Cremona, termine navigabile del grande fiume; qui le merci venivano sbarcate per proseguire sulle strade consolari verso l’Europa lotaringia. Poi, dopo la peste spagnola – triste Spagna inquisitoria che ha seminato il mondo di lutti, di povertà e di chiese – la caduta precipita fino a diecimila abitanti: noi che pensiamo alle incombenti stragi atomiche come a sciagure di dimensioni impossibili, non sopportabili dalla pianta dell’uomo abbiamo facile oblio, voluto oblio delle prove terrificanti per cui la specie è passata, il passato lo accettiamo ma depurato delle sue miserie e sofferenze, solo come testimonianza di passate grandezze e ricchezze”…

…”La tenuta La Creda sta nella fascia mediana e magica della val Padana, da cui vedi le nevi di monte Baldo, e se ti giri, quelle dell’Appenino fra Piacenza e Parma, e te me viene un sentimento di ubiquità come se il Maligno tentatore avesse sollevato sulla cima del tempio per farti contemplare il mondo e per offrirtelo. Stasera c’è un banco di nuvole violette a mezzo cielo; sotto, una striscia azzurro e oro che si stinge nel verde delle piantine di mais, le miracolose pianticine che moltiplicano un seme per mille. Seme dell’Ohio, si intende, che il dottor Giorgio Angelini è andato a prendere e a studiare nel corn belt degli States, sotto i grandi laghi. LA nuova frontiera corre per le campagne italiane, ma l’italiano medio finge di nonvederla, di non sapere che noi mangiamo americano, ibridiamo, concimiamo, impacchiamo, irrighiamo americano. La nostra schizofrenia è grande, a volte il cronista, l’osservatore ha l’impressione di stare a gambe divaricate su mondi scissi, incomunicabili, separate dal baratro delle rimozioni totali, delle utopie. Vive, resiste, ritorna di continuo, un mondo di sognatori e di ideologhi, il mondo in cui si agitano le sinistre paleomarxista, berlingueriana, marcusiana, neocristiana, guerrigliera, fochista, l’una contro l’altra armata, ma concordi nel rimuovere l’imperialismo americano, il mostro armato, il “vitello d’oro”, senza accorgersi che esso consiste poi nella civiltà tecnica, onnipresente, che ormai lega i continenti con le sue infinite complicità e correlazioni produttive e scientifiche e supera tutte le cortine d’acciaio e di bambù e anche il velo del neo islamismo fanatico. Mondi opposti eppure conviventi, incomunicabili eppure compresenti”…

…”Chi ha interpretato la grande manifestazione romana del 24 marzo 1984 come l’ultima “sfilata delle vecchie bandiere”, come gigantesco “passo d’addio” del proletariato industriale, ha anticipato i tempi, ma colto una verità. Il tramonto del mito operaio, della “centralità” della classe operaia ci sono e ne abbiamo parlato. Ma il peso degli operai e dei loro partiti resta e andrà gestito anche negli anni a venire. Il significato vero della grande manifestazione era ben altro che la difesa di una integrità salariale, del resto erosa ineluttabilmente dalla inflazione, era la difesa del sistema “corporato” che è l’ultima interpretazione italiana dello stato politico conservatore, del perenne rifiuto dalla politica consolidata alle rischiose dialettiche della ragione. Lo stato corporato di cui si poteva intuire il disegno sin dagli anni Cinquanta, sin dai rapporti tra De Gasperi e Togliatti, fra la Confindustria di Angelo Costa e il sindacato di Di Vittorio ha assunto regole pratiche quasi istituzionali negli ultimi dieci anni e funziona così: ogni governo e ogni atto di governo o quasi nascono da una mediazione extraparlamentare, da un compromesso fra i poteri politici ed economici. Come accade nelle amministrazioni cittadine o regionali di cui accennato, questo modo di governo diffida della ragione, resiste alla ragione e scambia la difesa dello status quo per il meglio o il meno peggio collettivo. La confutazione economica, tecnica di questo modo di governare è sin troppo facile: esso si è tradotto negli ultimi quindici anni in una dilapidazione gigantesca di risorse economiche e di possibilità di sviluppo; ha condotto alla bancarotta della grande industria di Stato, alla agonia delle industrie siderurgica e chimica, alla stagnazione economica e alla stessa decadenza della classe operaia. Ma tutti questi dati di fatto sono sempre stati considerati minori, rimandabili, sopportabili di fronte all’angoscia di dover scegliere a lume di ragione e di dover pagare le scelte con i morti e i feriti dei cambiamenti. Ma questa è la situazione italiana e la grande manifestazione comunista, i seicentomila affluiti a Roma da ogni parte d’Italia volevano dire no non tanto al decreto sulla scala mobile quanto alla novità, inaudita e insopportabile di un presidente del Consiglio che proponeva al voto della maggioranza una legge non concordata con il Partito comunista e con il suo sindacato, membri a tutto diritto del club corporato.”

Molto di G.Bocca, tra quello che asserisce plausibilmente (il suo punto di vista sulle cose), la descrizione insieme “fisica e politica” della geografia e della storia del Paese (con assieme il topografico ed il corografico), ci restituisce un topos del racconto e della resa oggettiva del fatto o del luogo considerato, come una leggenda narrata capace di far assurgere appunto all’ambientazione circostante una cifra narratologica da perpetuo factotum in cui impervia un lessico traslato e cablato a seconda dei casi, ma sempre interconnesso tra vicende diverse o tra stessi titoli di suoi volumi differenti, additati ed unificati tanto ad esempio dai misfatti creati dal progresso, che dalla casistica (infarcita pure da enunciati di riscontri numerici) e dai costumi tra storie e tradizioni rifacentesi o fatti discernere a stratificazioni varie per talune circostanze, tenuti assieme in doppio filo come una bass line che si staglia sullo sfondo d’una voragine affamata sull’indole romanzata dell’orizzonte lungimirante da assemblare di volta in volta, privo di nebbie che non ne impedisce lo sguardo in lontananza.

Vengono riportati qui di seguito ed in conclusione, in ordine di scrittura (come i capitoli dei precedenti titoli riportati), una beve parte dell’Introduzione alla prima edizione – del 1962 de “Miracolo All’italiana”; una breve parte del capitolo Per le Montagne, presente in “Il viaggiatore spaesato” (1996); ed un breve passo introduttivo del capitolo presente in “E’ la stampa bellezza” (1984). Ovvero “Alla ricerca dei sopravvissuti”.

..[..] ”Non sarà una civiltà autonoma, sarà, diciamo pure, una rielaborazione di idee, tecniche, rapporti sociali che ci arrivano, in grandissima parte dagli Stati Uniti, ma sarà senza dubbio una civiltà uniforme capace di mascherare, prima, e di soffocare, poi, la pluralità del mondo italiano”…”Nel frattempo le migrazioni interne avranno liquidato le ultime differenze del sangue, i discendenti dei longobardi, liguri, galli, romani, sabelli, svevi, greci, etruschi, arabi avranno creato, in vorticosa mescolanza, un tipo di italiano tanto composito da apparire indifferenziato, come lo desidera, per l’appunto, la civiltà dei consumi”…” La maledizione della macchina”, diceva Robert Payne, “sarà di offrire all’ultimo venuto la soluzione facile del conformismo. Grazie alla macchina chiunque potrà fare, acquistare, vedere, le cose che tutti acquistano, fanno, vedono, ascoltano”. E questa “maledizione” già sembra operare nell’Italia del miracolo, un certo torpore edonistico, l’automatismo delle scelte, le alienazioni pubblicitarie vanno diffondendosi anche se le classi sono ancora ben distinte e la loro lotta aspra. Sono del pari evidenti altri portati negativi del capitalismo moderno: la corsa al profitto che finisce inevitabilmente nella speculazione, i delitti urbanistici, la ingiusta distribuzione dei redditi, la solitudine, le frustrazioni e le amarezze che seguono l’individuo in una società asociale dove si intrecciano miriadi di atti amari e irresponsabili, ciascuno badando solo ai casi suoi”.

…[..] ”Ci sono tempi in cui un popolo, un paese diventa tutt’uno con la storia, le rivoluzioni, le guerre, le nuove frontiere, le grandi speranze, i grandi rischi, ciò che può cambiare nel giro di poche ore la sua sorte, e ci sono tempi come il nostro in cui l’ignoto incombe, ma in cui i giorni si susseguono eguali e insignificanti fra vaghe paure e vago benessere”…”Ci sono vecchi che recitano la loro età, si vestono da vecchi, si appoggiano a un bastone, si fanno sorreggere, cedere il passo, ma la saggezza della senectus non serve più a nessuno come a poco la baldanza giovanile. La rivoluzione non violenta ha cancellato la memoria dei vecchi, la loro saggezza, e la baldanza dei giovani mette quasi compassione nel mutamento strisciante e incontenibile”.

…[…] “Dopo Verona, nella valle dell’Adige era un macello: ponti saltati, strade interrotte. Con la rabbia in corpo del cronista che rincorre lo scoop partivo all’assalto dei camion come una pantera. Fra Egna e Caldaro la statale era coperta da una frana, bisognava proseguire per strade di campagna; passò un carro carico di mele guidato da uno che aveva il grembiule di tela blu e il cappello tirolese. Bloccò il carro, si fermò a guardare con la frusta impugnata, poi vidi che mandava giù qualcosa: il rospo della sconfitta. Deglutiva a fatica. Si rimise calmo, lasciò che salissi, e andò per i frutteti del Sudtirolo senza parlare. I reduci, i sopravvissuti c’erano per davvero a Merano, e li trovai nell’ospedale che stava vicino alla caserma degli alpini dove avevo fatto il corso di allievo ufficiale, vicino all’ippodromo, vicino all’Adige che lì è rettilineo e incanalato: un’autostrada grigio-metallica che d’inverno gela, dove noi allievi dovevamo correre sugli argini a torso nudo, anche il giorno dell’iniezione antitetanica”.

-Si ringrazia per la gentile occasione concessa, ovviamente citazioni incluse, il gruppo Gedi, Editoriale, Spa.

-La memoria ravvivata oltremodo in me, grazie a tale circostanza, dei miei nonni.

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